Un mese in Antartide, lontano da tutto, a 3mila metri di altitudine e temperature che oscillano tra i -40 e -50 gradi (ma con picchi che vanno ben oltre). Questo lo scenario che ha accolto Stefano Marino, ingegnere vastese che da 10 anni lavora nella sezione di Bologna dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), nella stazione italo-francese Concordia [GUARDA SULLA MAPPA], dove si svolgono importanti progetti di ricerca scientifica e che ospita i ricercatori della 35ª Spedizione Italiana in Antartide. Per l’ingegner Marino è stata un’esperienza affascinante in cui ha potuto dare il suo contributo alla ricerca scientifica italiana.
Qual è il tuo lavoro all’INGV?
Sono un informatico e mi occupo della gestione delle risorse informatiche e del centro elaborazione dati della Sezione di Bologna.
Spesso si tende ad associare l’INGV solo ai terremoti, in realtà l’attività è molto più complessa. Quali sono le funzioni dell’ente?
L’INGV si struttura in 3 dipartimenti di ricerca, Terremoti, Vulcani e Ambiente, ed effettua per conto della protezione civile le attività di sorveglianza e monitoraggio sismico e vulcanico su tutto il territorio nazionale.
[ads_dx]Come sei entrato nel progetto per andare in Antartide?
L’Italia, in quanto paese firmatario del Trattato Antartico, ha delle basi permanenti nel continente e le spedizioni sono gestite attraverso una speciale divisione dell’ENEA, che si chiama PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide). L’INGV partecipa ai progetti di scienze della terra banditi dal PNRA e quindi invia personale a gestione di questi osservatori (sismici e vulcanici e ionosferici).
Di cosa ti sei occupato nella missione?
Riguardo questi osservatori sismici permanenti nello specifico mi sono occupato della manutenzione dell’infrastruttura tecnologica esistente e di una nuova installazione di una stazione sismica.
Come si è svolto il viaggio?
Si parte dall’Italia per arrivare in Nuova Zelanda con voli commerciali, da qui si procede con dei voli militari con C-130 dei paesi firmatari del trattato antartico che hanno le basi vicine alla nuova Zelanda, quindi USA, ITA e Nuova Zelanda, Corea, oppure con le navi dei rispettivi programmi. Io ho viaggiato con Royal Air New Zealand all’andata, e US Air Force al ritorno.
Quali sono state le difficoltà maggiori?
Le difficoltà maggiori riguardano il grande senso di isolamento (reale), ovviamente la temperatura e il vento, e infine la mancanza di ossigeno – a Concordia Station circa il 35% in meno rispetto al livello del mare nostre latitudini – per via dell’effetto dell’altitudine e della minore pressione ai Poli.
Cosa invece ti ha affascinato maggiormente?
L’essere nel luogo più inaccessibile ed inospitale del pianeta, oltre c’è solo lo spazio.
Perché è importante per l’Italia questa attività di ricerca in Antartide?
E’ importante per l’Italia come per tutti. Il Trattato Antartico è stato siglato negli anni ‘50 per mettere fine a rivendicazioni territoriali che avevano come unico scopo quello di impossessarsi delle ingenti materie prime che si stimano esserci. Senza un accordo si sarebbe arrivati a enormi conflitti. Per la prima volta, con lungimiranza, gli Stati si sono accordati per preservare il continente antartico dallo sfruttamento, anzi, per valorizzarlo a livello scientifico con il fine del progresso del genere umano, visto che si tratta di un autentico laboratorio a cielo aperto, che ci permette di guardare e di capire la storia e le caratteristiche della terra, monitorarne il suo stato di salute (oggi pessimo), e di prendere spunti e riflessioni per il futuro.
Tg2 Dossier ha raccontato dettagliatamente l’attività che si svolge nella stazione Concordia, intervistando i ricercatori ed illustrando alcuni dei progetti scientifici [GUARDA].