In occasione dell’ultimo appuntamento dei Giovedì Rossettiani 2017, protagonista è stato il cantautore, o come vuole essere chiamato lui “cantore”, Roberto Vecchioni, che ha presentato il suo nuovo libro “La vita che si ama. Storie di felicità”. Grazie al Consigliere comunale Marco Marchesani e alla prof.ssa Rita Seconetti, artefice di una missiva speciale, c’è stata l’occasione di avere un incontro unico e irripetibile, prima della serata al Teatro Rossetti, con l’artista che, affabilmente, ha risposto ad alcune domande. Il colloquio si è svolto nella splendida cornice della terrazza presente nella Residenza Amblingh, grazie alla disponibilità di Massimo Cupaioli e Raffaella De Francesco.
Quando è nata la sua passione per la musica?
Queste sono cose istintive perché fin da quando sei piccolo percepisci i ritmi e i suoni perché li becchi ovunque, ad esempio il fruscio del vento. E’ una cosa molto istintiva: c’è chi nasce aritmico e chi nasce ritmico. E’ una cosa naturale che poi, magari, fai tua e inizi anche a costruire sui suoni che senti. Ho sempre interpretato l’amore e la passione per tutto ciò che è musicale in modo non banale, semplicistico o facilistico, bensì come se fosse una costruzione di cuore, intelligenza e soprattutto, cosa fondamentale, di originalità. Io posso aver fatto delle cose anche brutte ma ho tentato sempre di realizzare canzoni che nessuno avesse mai scritto, almeno in quella forma e in quella maniera perché era proprio il principio della mia vita.
I suoi familiari e i suoi amici l’hanno sempre sostenuta in questo suo percorso?
Nemmeno per sogno. Mio padre pensava che il musicista non fosse nemmeno un lavoro! Poi, con il tempo, hanno capito e si sono resi conto che in me c’era passione, istinto, e dopo è venuto il mestiere ma la mia è stata una gavetta lunghissima, infatti non ho fatto subito il cantante/cantautore: ho fatto l’autore, l’autore per terzi, per altri e sono stato 6/7 anni in casa discografica a produrre brani. La mia carriera, quindi, è cominciata tardi, a 27 anni, cosa che non accade mai oggi, e ho intrapreso un percorso un po’ diverso da quello precedente perché mi sono accostato a un tipo di musica che è differente da quella commerciale. Generalmente, anche i miei figli sono un po’ caustici con me: mi prendono in giro, ma è anche giusto, si mettono d’accordo e qualche volta, sono abbastanza bastardini nei commenti però so che lo fanno per amore.
In una canzone, per lei, quanto conta il testo rispetto alla musica?
Questa è una cosa inscindibile poiché la canzone è veramente fatta di una mistura ed è quasi impossibile dividerla dal testo, tanto che è difficile trovare antologie in cui ci siano testi di canzone oppure, se si trovano, sono spuri. La canzone deve anche essere sentita con la musica, non bisogna solo leggere le parole: essa, infatti, è assolutamente il 50% in ogni composizione anche se a volte sembra solo un accompagnamento. Mi piace molto realizzare melodie: ho fatto sia ballate alla De Andrè, dove musica ce n’è proprio poca, ma anche melodie all’italiana, con il nostro tradizionale ritornello e che abbiano un senso un po’ pucciniano che curo molto. Quando nasce una frase intera in parole che mi ispira, gli trovo subito una melodia da sovrapporci e poi vado avanti nel creare la canzone. Un’importante capacità del cantautore è quella della sintesi: devi liofilizzare tutto ciò che potresti dire in un romanzo. Questa è una cosa che si acquisisce col tempo perché all’inizio sei prolisso, lungo e fastidioso. Solo dopo, riesci a mettere tutto insieme. Prendiamo un esempio che conoscete tutti, “Chiamami ancora amore”: è un vero e proprio romanzo poiché ci sono dentro 400 immagini, tutte chiuse; in ogni verso, infatti, vi è un’immagine che corrisponde a quella successiva. Questo, quindi, è un lavoro abbastanza complesso che solo con il tempo diventa spontaneo. All’inizio lo devi costruire e poi devi tenere in mente due cose: mai scadere nell’ovvio, nello stereotipo e nelle sciocchezze ed essere comprensibili. A volte, io non lo sono ma lo faccio per divertimento, anche se, in realtà, si dovrebbe essere comprensibili.
Tra le sue canzoni più poetiche vi è “Figlia”, dedicata proprio a Francesca che ha ripreso anche la frase “T’innamorerai senza pensare” come titolo del suo libro. Mentre scriveva questa canzone, quali erano le sue aspettative da padre? Si sono realizzate?
La canzone ce l’ho impressa in mente, ma il ricordo di com’è nata è piuttosto vago. Ero in un albergo, probabilmente proprio da queste parti (Marche o Abruzzo), e durante una notte stavo tentando di fare dei pezzi di Leonard Cohen con la chitarra ed è proprio su un giro di quest’autore che è nata la storia di mia figlia. Lo stile quindi è molto coheniano ed è veramente una ballata poiché ripete sempre la stessa melodia. Il concetto fondamentale era che mia figlia dovesse essere sempre orgogliosa di me e non pensare che la vita fosse vincere e guadagnare soldi, insomma, che fosse coerente nella sua esistenza.
Se dovesse dare una definizione alla musica, quale sarebbe?
Direi… l’imprescindibile accompagnamento di ogni momento della nostra vita perché anche quando non la senti, ce l’hai dentro: c’è una musica quando si prova dolore, quando hai una gioia, quando si sposa una figlia, oppure quando litighi con qualcuno. C’è sempre un accompagnamento musicale in tutto ciò che viviamo ogni giorno.
Il concerto che le ha regalato più emozioni?
Non ce n’è uno in particolare, saranno stati una ventina/trentina. Non posso ricordarli tutti, ma sicuramente qualcuno a Milano perché è la mia città però non faccio distinzioni. Ce ne fu uno a Parma negli anni ’80, molto bello, che durò 3 ore e qualcosa e andò addirittura in prima pagina! Poi, ce ne sono tanti altri, tantissimi…quasi tutti, devo dire (anche in posti piccoli in teatri di 500/600 posti).
Qual è il messaggio che vuole dare con il libro che presenterà questa sera?
Non c’è un vero e proprio messaggio perché il libro dice che la felicità non si definisce. Ognuno può vederla come vuole però se dovessimo tirar fuori questo messaggio, sarebbe come dire che vivere è già essere felici, l’importante è quello.
Cosa direbbe ai giovani che vogliono intraprendere la carriera di musicista e quali sono le prospettive nel nostro Paese?
Le prospettive non esistono. La carriera da musicista si fa per sé stessi perché si ama la musica, quello che si fa, non si pensa di dover diventare commerciali per forza, si fanno le cose belle e si canta per gli amici oppure, se va bene, si diventa di più ma è un “di più” veramente perché, in realtà, l’importante della musica è che sia un ampliamento di te stesso, che ti dia forza e non tanto il successo perché quello poi va e viene e non ha nessun senso pensare che sia la cosa più importante della vita.
Lorenzo De Cinque
foto di Costanza Vespasiano
redazione Scuolalocale.it