“La cosa che più mi piace di questo lavoro è poter dare il mio contributo alla scienza, far parte di qualcosa di molto più grande di me”. Così il vastese Giuseppe Belfiore descrive il suo impegno nel campo della biologia marina, settore in cui a 31 anni è già riuscito a lasciare il segno: la sua ricerca sulla tassonomia delle spugne, ha infatti portato alla scoperta di 4 nuove specie, che adesso portano il suo nome. A Zonalocale parla dei suoi studi, delle sue ricerche e del suo lavoro.
Com’è nato lo studio che ha portato alla scoperta delle nuove specie?
È una cosa iniziata piuttosto per caso. Quando ho scritto la tesi per la magistrale, ho scelto come relatrice la professoressa Calcinai specializzata in tassonomia di spugne, e insieme abbiamo iniziato questo lavoro di studio che è andato avanti per un anno e mezzo. Studiando le specie, ci siamo resi conto che ce n’erano di nuove che necessitavano approfondimenti e ricerche supplementari. Avevamo del materiale che alcuni ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche avevano prelevato nel corso di alcune immersioni in Mozambico, nell’ambito del progetto internazionale Green Bubble, il cui obiettivo è quello di sviluppare il turismo nei paesi meno avanzati. Io e la professoressa abbiamo iniziato ad analizzare questi campioni e, quando ci siamo accorti che c’erano delle specie nuove, abbiamo scritto un articolo.
Hai sempre avuto la passione per la biologia marina? Qual è stato il tuo percorso di studi?
Mi sono laureato in biologia all’Università dell’Aquila e poi ho fatto la specialistica ad Ancona. La mia scelta è stata davvero casuale perché dopo aver finito la triennale non volevo più studiare. Sono stato 3 mesi in Turchia, dove ho fatto il volontario per la tutela delle tartarughe caretta caretta, occupandomi di sensibilizzare la popolazione alla salvaguardia di questa specie e del suo habitat. Lì mi sono accorto che per lavorare all’estero la triennale non sempre è sufficiente. Un’amica con cui studiavo all’Aquila mi propose di fare Biologia Marina ad Ancona insieme a lei e io pensai: “perché no?”. Mi sembrava una cosa molto interessante che mi avrebbe dato anche modo di viaggiare, ho pensato che fosse una strada buona da intraprendere e mi sono iscritto. Alla fine, la mia amica non è più venuta a studiare con me, ma le sono grato perché mi ha aiutato a trovare la mia strada. Mentre studiavo ho subito iniziato a lavorare sulle barche, poi a fare subacquea. Ho preso i brevetti, mi sono appassionato e a febbraio dell’anno scorso, mi sono laureato.
Come si classificano le spugne, e quali sono le analisi che portano a rendersi conto di essere in presenza di una nuova specie?
Le spugne sono organismi composti da spicole, che sono come le nostre ossa, sono una parte solida. Sono organismi che presentano caratteristiche diverse, alcune sono formate da spicole e altre hanno solo fibra, e questo è già un elemento che aiuta nella classificazione. In natura esistono circa 9323 spugne. Per capire di aver scoperto una specie nuova, si parte dal campione, facendo varie analisi chimiche e morfologiche e si cerca di risalire alla specie di quella spugna. Quando si riesce ad arrivare al genere ma non si trova la specie corrispondente, vuol dire che ci si trova di fronte a una specie nuova. Da lì si parte con analisi più approfondite, si scrive un articolo che si manda a una rivista scientifica per essere revisionato da altri esperti del settore che leggono l’articolo e lo correggono. Ad esempio, noi pensavamo che le specie nuove fossero solo tre, invece gli scienziati si sono resi conto che una di quelle che avevamo semplicemente registrato, in realtà aveva delle particolarità che erano diverse dalle spugne di quella specie. L’articolo che abbiamo pubblicato è frutto di un lavoro iniziato nel 2017 nel quale abbiamo riconosciuto 55 specie, di cui quattro nuove. In questo caso siamo stati anche “sfortunati” perché nel 2019 un gruppo di ricerca sudafricano ha descritto delle specie che anche noi stavamo studiando quindi le specie nuove potevano essere anche di più.
Quattro specie che portano il tuo nome, come ci si sente a sapere che il proprio nome resterà per sempre scritto nella scienza?
Sono molto orgoglioso di questa cosa, perché questo è anche il mio contributo alla scienza. Una delle cose che preferisco di quello di cui mi occupo è il far parte di qualcosa di molto più grande di me. Sono stato molto fortunato nello scoprire nuove specie che saranno il mio lascito. Lo studio e le spugne portano i nostri nomi. Le spugne hanno il nome che viene dato dal ricercatore, con accanto il nome del ricercatore stesso. Una delle specie nuove che abbiamo scoperto, ad esempio, si chiama Hyattella sulfurea Calcinai e Belfiore 2020. I nomi delle altre specie sono Hyattella pedunculata, Phoriospongia mozambiquensis e Amphimedon palmata. Devo ringraziare la professoressa perché accanto al suo nome ha deciso di mettere anche il mio e per questo le sarò sempre grato.
Non hai partecipato alle immersioni in Mozambico, ma hai avuto modo di fare esperienza sul campo in questi anni?
Da settembre 2019 a marzo 2020, sono stato in Giappone dove ho fatto lo stesso lavoro, campionando delle spugne un’isola giapponese per fare una check list per vedere quali specie esistono in quel posto. La ricerca è stata svolta all’interno di uno studio internazionale sull’acidificazione degli oceani. Le spugne sono habitat formers, quindi organismi in grado di creare l’habitat per altre specie, e sono i principali competitors dei coralli. È stato dimostrato che le spugne risentono in maniera “positiva” all’acidificazione degli oceani e quello che stavamo studiando era se traggono un vantaggio fisiologico dall’acidificazione. A causa dell’emergenza sanitaria sono dovuto tornare in Italia ma penso che scriveremo un articolo anche su questo studio. Ho già campionato tutto e potrei lavorare da qui.
Il lockdown ti ha costretto a rientrare dal Giappone, come hai trascorso questi mesi di stop forzato?
Durante il lockdown ho scritto degli articoli e ho concluso lo studio che abbiamo pubblicato. Inoltre ho lavorato sui dati delle immersioni in Giappone. Inizialmente questo periodo mi ha aiutato perché sono riuscito a concentrarmi molto sul lavoro da fare, poi la pigrizia ha avuto il sopravvento e sapendo che non sarei dovuto ripartire ho pensato di rilassarmi un po’. Erano 12 anni che non abitavo più a Vasto e passare due mesi chiuso in casa qui è stato piuttosto impegnativo.
Oltre a immersioni, ricerche e studio, di cosa ti occupi come biologo marino?
Il mio lavoro principale è quello di lavorare sulle tonnare, e nel periodo estivo ormai da 5 anni vado sulle barche siciliane e su quelle del salernitano che vanno a pescare tonni. Lavoro per conto di un’azienda francese, e il mio compito è quello di controllare che gli equipaggi rispettino le regole, ad esempio quelle relative alle quote di tonno che si possono pescare, quindi devo controllare, prelevare campioni e prendere le misure. Posso dire però che fortunatamente le norme vengono rispettate, e molto.
Qual è l’aspetto che preferisci del mondo scientifico? E cosa invece pensi che dovrebbe migliorare?
La cosa più bella è la rete di collaborazione che si crea, lo scopo finale di tutti è quello di aumentare la conoscenza. Ad esempio, il professore con cui collaboravo in Giappone, mi ha detto che avrei potuto far partecipare tranquillamente anche la professoressa di Ancona alla ricerca che stiamo svolgendo lì e credo che questa condivisione sia una cosa meravigliosa. La maggiore conoscenza non è mai un male. Il lato negativo potrebbe essere la carenza di fondi investiti nella ricerca, i soldi sono pochi e anche i posti, quindi si crea grande competizione.
Che progetti hai per il futuro?
Penso di restare più vicino a casa, vorrei fare immersioni nell’Adriatico, è un mare ricco di vita. Ho già fatto qualche immersione qui a Vasto e mi piacerebbe studiare qualcosa anche alle Isole Tremiti che hanno un ecosistema fantastico. Inoltre lo studio dei Porifera (spugne, ndr) anche di quest’area potrebbe aumentare l’appetibilità della zona ai turisti della subacquea e ai naturalisti, un po’ quello che con il progetto Green Bubble si è fatto in Mozambico.