L’abbazia benedettina/agostiniana di S. Angelo in Cornacchiano di Fresagrandinaria ha avuto un glorioso passato. La sua importanza storica è stata riaffermata nell’interessantissimo convegno tenuto nella sala museale del castello di Monteodorisio il 7 novembre 2018 in uno scenario veramente grandioso. Un incontro al quale ebbi modo di partecipare assieme alle scuole locali e agli alunni del liceo artistico di Vasto, a comuni cittadini, a funzionari e dirigenti della soprintendenza archeologica di Chieti (tra i quali la dott.ssa Amalia Faustoferri) di Roma e di Firenze, dell’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila, ai sindaci Saverio Di Giacomo, Giovanni Di Stefano e Carlo Moro e ancora a Nicolino Ottaviano della Fondazione Comunità Montana di Gissi e alla Coop Parsifal di Vasto. Gli studenti del settore proiettarono documentari e relazionarono diffusamente sui loro studi e ricerche. tra cui quelli su alcuni tratti di pavimentazione musiva dell’antica abbazia. Al termine dell’incontro fummo gentilmente ospitati a pranzo dal sindaco di Monteodorisio in un locale sito fuori paese con servizio e cibi eccellenti.
La storia di S. Angelo in Cornacchiano si intreccia con quella di tutti i borghi della zona e Fresa ha voluto ricordare questo fatto con una grande tela del 1771 – forse del molisano Gamba o di scuola napoletana – esposta sulla parete del presbiterio parrocchiale: in essa sono raffigurati, a me pare, Sant’Agostino e il beato Angelo da Furci in adorazione dell’Addolorata; di lontano si vede un fabbricato: l’antica abbazia. Le mura perimetrali di fondamenta dell’antico cenobio misurano metri 42 x 30 e si trovano in un luogo suggestivo con molto verde. Il complesso fu intitolato a San Michele Arcangelo, tanto venerato dai longobardi e normanni, un santo guerriero che ricordava un po’ il loro antico protettore Odino. Qualcuno lo dice alle dipendenze di Montecassino già dal 1001. Molto probabilmente fu edificato sui ruderi della chiesa di San Martino sul Treste menzionata nell’829 nel Chronicon Farfense. Sul sito doveva essere già esistito un antico tempio pagano dedicato a Afrodite e a Cibele, dee della fertilità, come ci testimoniano alcuni reperti archeologici, statuette fittili e un lastrone lapideo con simbolo fallico (apotropaico). Il villaggio di Cornacchiano o Cornachano o Cornaclano (castrum) che dir si voglia, esistente più a valle a un centinaio di metri in direzione del Treste, fu un vicus romano ed è menzionato nel 1267. Scomparve nel corso del Trecento forse per una grande pestilenza. Secondo lo studioso tedesco G. Rohlfs “… i composti toponomastici con –ano… costituiscono l’indice più sicuro per una maggiore o minore colonizzazione romana…“.
Se così è stato, è lecito dire che quel villaggio abbia avuto origini ben più antiche rispetto agli altri odierni centri del Vastese. Oggi sono noti documenti che attestano la plurisecolare vita dell’abbazia: dal 1115 con l’atto di donazione di Dogliola da parte di Ugone Grandinato, barone di Fresa e benefattore, alla commenda dei beni abbaziali concessa dall’abate al Monastero di Sant’onofrio in Vasto nel 1492.
Non ci è dato sapere in che anno ai benedettini subentrarono gli eremitani: probabilmente dopo il 1260.
Conosciamo il nome di cinque abati veri: Giovanni (1115), Monti (dal 1220), Bonagino (1267), Matteo (1326) e Bernardo (1492) ai quali seguirono gli abati commendatari nominati dai feudatari. Abbiamo in copia le bolle papali di Alessandro III (1173), di Innocenzo III (1208) e i tributi pagati nel 1326 (vd. Sella: R.D.A.M. 4262) all’arcivescovo di Chieti; ci sono pervenuti anche i nominativi dei monaci nel 1267, di alcuni personaggi dei dintorni nonchè quelli dei rappresentanti di Palmoli e Dogliola.
Verso metà XIV secolo “… per le vicende sofferte dai barbari e dai conquistatori, la badia cadde in rovina…” si legge in un resoconto. Ma poi, lentamente, si riprese e continuò per altri 150 anni.
L’abbazia di Cornacchiano possedeva un vasto patrimonio di terreni, villaggi, chiese di là e di qua dal Treste tra cui le parrocchiali di Fresa, Lentella e Dogliola. Ancora nel 1568 possedeva grancie (ossia granai, fattorie con cappelline) a Dogliola, Tufillo e Palmoli, per cui si può supporre che ogni contrada avente il nome di un santo sia stata sede di grancia. Tali strutture erano condotte da monaci conversi e la loro collocazione non distava più di una giornata di cammino dall’abbazia madre. S. Angelo, oltre a Dogliola, tenuta fino alla fine del medioevo, signoreggiava su tutto il territorio fresano dal bivio della Croce al Treste per circa un migliaio di ettari (che fu unito al tenimento fresano nel 1600 quando subentrarono i feudatari Caracciolo). I terreni in questione, nel corso dell’Ottocento e a più riprese, furono in parte lottizzati e concessi in uso perpetuo (livello) ai cittadini.
Nella visita pastorale dell’Arcivescovo Oliva del maggio 1568 la chiesa abbaziale fu trovata “diruta”, la torre campanaria in pietra e il luogo disabitato, senza custode, tuttavia i lavori di riparazione erano cominciati.
Nella scuola tenuta dai monaci di Sant’Angelo si insegnava filosofia e le altre materie comprese nel cosiddetto trivio e quadrivio. Fu frequentata con profitto dal furcese Angelo – dai sei anni al diciottesimo – il quale poi prese i voti e vestì l’abito degli eremitani di Sant’Agostino a Vasto e si laureò alla Sorbona di Parigi. L’anno della sua nascita non è certo: chi dice 1257 e chi 1246 come il suo biografo Francesco Lanza che si rifà ai bollandisti e fa questo ragionamento: siccome Angelo morì ottantunenne nel 1327 ne consegue che era nato nel 1246. Appartenne sicuramente a una famiglia agiata o, comunque, di una certa importanza giacchè il fratello della madre Albasia, Monte o Monti, rivestiva la prestigiosa carica di abate a Cornacchiano.
Angelo di Adalippo – un illustre personaggio medioevale di cui i compatrioti vanno giustamente fieri – fu di vasta cultura e scrisse molto in fatto di religione; predicò in vari conventi e borghi della zona e, tra l’altro, coltivò l’amicizia con San Nicola di Tolentino dello stesso ordine; ebbe importanti incarichi, insegnò nel Napoletano e fece santa vita. Fin dalla sua morte il popolo lo chiamò beato e considerò compatrono della città di Napoli dov’era stato seppellito. Su di lui fiorirono leggende e racconti di eventi ritenuti miracolosi. I conterranei lo acclamarono come protettore principale e richiesero le sue spoglie al re Murat. Cosicchè il 13 agosto 1808 avvenne la traslazione delle sue reliquie a Furci e, pertanto, quel popolo suole fare ogni anno, in tale data, un devoto pellegrinaggio presso il rudere del campanile abbaziale, ancora esistente a Cornacchiano e su cui, nel 1949, hanno murato una lapide a ricordo e fanno tuttora celebrare una messa dal loro parroco. Quel luogo, per loro, è sacro.
Nel corrente anno, che non cessa con la sua virulenza, probabilmente l’evento si svolgerà con il solito spirito devozionale ma con limitazioni e differenti formalità.
Pierino Giangiacomo