di Alessandro Aruffo
TORRICELLA PELIGNA – Essere torricellano vuol dire sentire la pelignità nelle vene, il sangue della Maiella che scorre dentro di noi. La nostra montagna e i nostri paesaggi non sono solo nel pubblico un oggetto culturale, ma rappresentano l’humus interno delle nostre anime. Esattamente l’anima, il suo flusso non gerarchizzato alle categorie di dominio, è ciò che è messo a dura prova nel mondo globale di oggi.
Che cosa rimane di un’anima devota alla pelignità in un deserto globale in cui l’identità della memoria del cuore è in parte smarrita? Che cosa resta in particolare (e qui parlo di me e di noi che sentiamo Torricella) del paesaggio abruzzese della Maiella in cuore che fatica a trovare “la strada di casa”? Gli affetti sono tutto, ma essi si legano ad un luogo in cui si è stati felici, poiché è lì che si torna se lo si è ancora, e non si può non essere felici in un ambiente in cui una persona trova le ragioni della propria esistenza proprio in quella roccia, in quelle parole che descrivono la forza dell’essenza peligna nelle personalità dei personaggi della famiglia, come ha descritto bene John Fante riguardo la figura di suo padre.
In una corrispondenza a Mencken, datata 6/1/34, Fante scrive queste parole: «Non c’è mai stata una volta in cui sia venuto da me per chiedermi un consiglio, e questa cosa mi faceva restare male, ma in ultima analisi mi rendeva ancora più orgoglioso di lui. Ora è cambiato. È finito. Mi si torcono le budella quando ci penso». E continua: «Ha solo cinquantatré anni, ma quel suo preoccuparsi durante la depressione ha lasciato un segno profondo sulla sua vitalità. È tornato ad essere un dannato ragazzino. […] Aveva sempre ragione, ecco perché lo amavo»1. Nella stessa lettera Fante continua lamentandosi del fatto che ora che sta diventando conosciuto come scrittore, il padre se ne vanta e tiene, colui che non ha mai letto (come dice John Fante), sempre una copia di giornale in cui legge i racconti del figlio che vengono pubblicati. Al figlio questo non piace perché veniva meno per lui quella figura del padre che non si rivolgeva al figlio con tutte quelle lodi, che appunto non faceva affidamento sul figlio, visto che il padre era stato sempre un uomo straordinariamente abile a cui “non si poteva dare torto”.
Ecco, questo era padre Fante per il figlio: un uomo che si è spaccato la schiena lavorando e non chiedendo niente a nessuno, e da ciò ha sempre provveduto ai bisogni della famiglia, insomma un uomo con una tensione per la vita non banale. Quello stesso padre che straripò d’amore per la nascita del nipotino, e così lo racconta John Fante: «Papà era accanto alla finestra nella sala d’attesa. Gli passai un braccio intorno alle spalle e lui si girò. Non ebbi bisogno di dire nulla. Si mise a piangere. […] Lo presi per mano e camminammo per il corridoio fino alla scrivania della caporeparto. Lui si coprì gli occhi con un fazzolettone rosso nel quale si riversavano le lacrime, e mentre stava lì davanti a piangere, io dicevo all’infermiera che lui voleva vedere suo nipote. Lui non la guardò, ma la sua dolorosa gioia era più di quanto lei potesse sopportare. […] La seguimmo attraverso delle porte girevoli, la mano di papà era nella mia. Lei scomparve e un momento dopo era dall’altra parte del vetro, con una maschera sul viso, e teneva in braccio il bambino. Papà non lo vide, perché le sue due mani nel fazzolettone rosso gli coprivano gli occhi, ma sapeva che il bambino era molto vicino, ed era riverente, come se avesse paura di alzare lo sguardo fino al volto di Dio. E anche se avesse alzato gli occhi, non avrebbe potuto vedere il bambino lo stesso, perché era accecato dalle lacrime»2.
In questo straordinario pezzo finale di Full of life emerge tutta la gioia infermabile (attraverso le lacrime) per un padre che ha faticato tanto e ritrova nella nascita del nipotino un riconoscimento del suo amore per la vita, per l’umiltà di una posizione umana che rende grandi e che ha trasmesso al figlio. E di John Fante che cosa resta? Chi è John Fante? Difficile dirlo, ma traiamo qualche indizio attraverso la sua opera. Abbiamo detto, che cosa resta di John Fante? Ebbene rispondiamo con le sue parole: «di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina»3. La memoria straordinaria del cuore si concretizza in questo “non essere niente”, ma solo un certo ricordare il luogo e la persona che racchiude l’attività che muove l’umano nell’ordine degli affetti più cari. Il padre e la madre, due figure centrali della vita di John Fante sono il ricordo più vivido della memoria di quel cuore lontano dall’origine. Come vive John fante questa lontananza? Così: «Guardai le facce della gente attorno a me, e sentii che la mia era uguale alle altre. Facce senza sangue, facce tirate, preoccupate, smarrite. Facce sbiadite come fiori strappati alla radice e ficcati in un vaso. Dovevo andarmene da quella città»4.
John Fante si sente a Los Angeles come un “fiore strappato alla radice”, come una fonte riversata e soffocata. Ma John Fante non ha mai mollato, è stato un uomo persistente e caparbio che ha raggiunto il sogno di essere uno scrittore e ha riportato nella letteratura quelle radici a cui si sentiva sottratto. Lo dimostra la risposta che nel tempo ha dato a Menken, il quale disse di un un suo manoscritto che gli dava «l’inconfondibile impressione di inefficacia»5. Ma ciò che primariamente ha mantenuto in vita il sogno di John Fante è stato proprio quell’amore verso le radici, la famiglia, il luogo di provenienza e la sua letteratura è questa incredibile facilità di raccontare la vita di un ragazzo innamorato e orgoglioso delle proprie origini.
Questo incredibile personaggio quale è John Fante capì di fare lo scrittore quando gli capitò tra le mani un libro di Dostoevskij, subito sentì (come racconta nella Confraternita dell’uva) che quella mente russa così attenta alla sfumature più sottili dell’animo umano gli avrebbe aperto una visione ottimale sulla sua decisione di essere scrittore, di guardare e muovere la penna sulla carta sapendo che quello non sarebbe stato un semplice atto fisico, ma una incrinatura dell’io verso il mondo, uno scorcio di percezione individuale che cerca di incontrarsi e dialogare con il flusso percettivo del mondo. Torricella Peligna rimane quel paesaggio incontaminato d’Abruzzo in cui la bellezza, l’arte del territorio e la gentilezza delle persone si mescolano per creare un’atmosfera che fa stare bene coloro che l’accolgono.
1 J. Fante, Sto sulla riva dell’acqua e sogno. Lettere a Mencken 1930-1952, Fazi Editore, Roma,
2001, cit. p. 57.
2 J. Fante, Full of life, Fazi Editore, Roma, 1998, cit. pp. 148-49.
3 J. Fante, Aspetta primavera, Bandini, Einaudi, Torino, 2016, cit. p. 4.
4 J. Fante, Chiedi alla polvere, Einaudi, Torino, 2016, cit. p. 190
5 J. Fante, Sto sulla riva dell’acqua e sogno, op. cit., p. 19.