ORTONA – «Da questo porto, la notte del 9 settembre 1943, l’ultimo re d’Italia fuggi con la corte e con Badoglio consegnando la martoriata patria alla tedesca rabbia. Ortona repubblicana dalle sue macerie e dalle sue ferite grida eterna maledizione alla monarchia dei tradimenti, del fascismo e della rovina d’Italia, anelando giustizia dal popolo e dalla storia nel nome santo di Repubblica». Questo è quanto si legge nella lapide – più volte trafugata o distrutta dal 1945, quando vene affissa per la prima volta – presso il Porto di Ortona, a memoria dell’episodio di riferimento.
Oggi, infatti, ricorre l’ottantennale della fuga dal Porto di Ortona di Vittorio Emanuele III, penultimo re d’Italia – com’è corretto dire, poiché l’ultimo monarca fu il cosiddetto re di maggio, Umberto II di Savoia.
Per la ricorrenza, abbiamo dato la parola a Marco Patricelli, storico contemporaneo, di cui il 1° settembre scorso è uscito “Tagliare la corda. 9 settembre 1943, storia di una fuga” per Solferino editore.
Con Patricelli siamo partiti proprio dal ’43, con l’Italia che aveva subito una serie di disfatte militari; per nominarne alcune: la pesantissima sconfitta sul fronte russo e la perdita delle colonie in Africa, i continui bombardamenti degli Alleati angloamericani, il 12 giugno l’avvio dell’operazione “Corkscrew” per conquistare l’isola di Lampedusa, fondamentale testa di ponte per realizzare poi l’attacco in Sicilia, il 13 la conquista di Lampedusa, Lampione, Linosa e Pantelleria. Lo sbarco in Sicilia, tra il 9 e il 10 luglio, di 180mila soldati inglesi, statunitensi e canadesi con l’operazione Husky, la conquista di Palermo del 22 luglio e a metà agosto Messina. Il 19 luglio, invece, 662 bombardieri scortati da 268 caccia colpirono Roma con 4mila bombe: solo nel quartiere San Lorenzo, il più colpito, ci furono 3mila morti, 10mila le case distrutte. Nelle settimane successive, precisamente il 31 agosto, fu colpita anche Pescara, per la sua posizione strategica lungo la costa adriatica.
In questo contesto, il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo destituì Mussolini con 19 voti favorevoli, 8 contrari, e un astenuto. «Fu l’atto del Fascismo di sopravvivere a se stesso – come spiega lo storico Patricelli – immolando il capo». Re sciaboletta – appellativo con cui era noto Vittorio Emanuele III – nominò quindi Pietro Badoglio come nuovo capo di governo.
Un momento fondamentale del governo Badoglio, quantunque sembra che il maresciallo d’Italia volesse un po’ defilarsi dalla questione, fu l’armistizio di Cassibile, stipulato il 3 settembre 1943 fra il generale Dwigth Eisenhower (poi 34° presidente USA), Comandante in Capo delle Forze alleate, in conto e per nome dei Governi Britannico e Americano, e il generale Giuseppe Castellano, con delega, quasi forzata, di Badoglio. Il proclama ci fu solamente l’8 settembre.
Così, la sera del 9 la storia ricorda la fuga dei reali, di Badoglio e dei ministri militari. Come si legge dalla lapide, sembra che siano partiti tutti da Ortona, ma «bisogna sgomberare il campo da un equivoco – dice Patricelli -, perché esiste una fuga da Ortona, ma la fuga programmata dai reali e del governo è la fuga di Pescara che avviene verso Pescara e da Pescara. La fuga di Ortona è un’appendice assolutamente non prevista.
Di fatto – prosegue Patricelli -, la fuga da Ortona è successiva al Consiglio della Corona svoltosi all’aeroporto Pasquale Liberi di Pescara, nel pomeriggio del 9 settembre. In seguito ad esso la regia famiglia ed i capi militari decisero di tornare al castello di Crecchio, lontano da Pescara, già bombardata e presso cui erano state avvistate pattuglie tedesche di transito. Il re, quindi, con altri fortunati al seguito, si imbarcò da Ortona, ma Badoglio e de Courten, come previsto, salparono dal Porto di Pescara.
Si spalanca per l’Italia – specifica Marco Patricelli – il periodo più nero e più drammatico che è quello della guerra civile, conseguenza diretta della proclamazione della Repubblica Sociale al Nord». Qui torna quel chiaroscuro che riveste la figura di Badoglio, il quale non rispettò una clausola del cosiddetto Armistizio Lungo che prevedeva la consegna del duce e dei principali gerarchi. Così, aggiunge Patricelli: «Badoglio se n’è dimenticato? Ha fatto finta di dimenticare? Non lo sappiamo, ma aveva un illustre prigioniero sul Gran Sasso.
Con la fuga del re si verifica lo sfaldamento e il crollo verticale di un sistema e di un paese. In trenta ore abbiamo l’implosione totale del sistema Nazione e quell’allontanamento, diventato non solo formalmente ma sostanzialmente un fuga, fa sì che Mussolini venga liberato dai tedeschi, perché faccia risorgere il fascismo, per ordine di Hitler.
La situazione, con tanto di fuga – conclude lo storico – evidenzia il modo maldestro e un po’ vigliacco di gestire un quadro complesso che avrebbe richiesto uomini di polso, con idee chiare, capaci di sacrificarsi per la Nazione».