di Gabriella Izzi Benedetti
Negli Atti del 43° convegno nazionale dell’Archeoclub di San Severo, un interessante approfondimento riguardo alla Chiesa di San Pietro in Vasto*, di cui oggi non rimane che il portale, ci viene dallo storico dell’arte Christian De Letteriis, venuto a conoscenza attraverso il volume realizzato nel 1998 dalla Società Vastese di Storia Patria Luigi Marchesani, I giorni che sconvolsero Vasto, la frana del 1956, delle vicende relative alla suddetta chiesa, tra le più antiche e prestigiose della nostra città.
Lo storico ricostruisce i fatti partendo dalla decisione del Genio Civile di Chieti che nel 1959 ne decretò l’abbattimento, nonostante le proteste dell’allora parroco don Romeo Rucci, scartando l’ipotesi di un consolidamento della struttura che a detta di molti, essendo i guasti non irreparabili, avrebbe salvato il prezioso complesso di origine romanica. Scrive il De Litteriis “Il rammarico per la perdita di una pagina rilevante dell’architettura vastese avrebbe potuto in minima parte essere compensato dalla scrupolosa conservazione dei manufatti artistici in essa custoditi, molti dei quali dispersi”. Alcuni furono trasferiti nella vicina chiesa di sant’Antonio tra cui il Crocifisso della scuola di Giacomo Colombo (XVIII secolo), i marmi dell’altare maggiore (XVIII sec.) e brevi segmenti dell’antistante balaustra (XIX sec.). Ma scrive il critico “Del prestigioso altare di san Pietro restano oggi solo alcuni frammenti, assemblati senza alcuna logica compositiva e addossati alla parte di fondo dell’unica navata” in contrasto con gli stucchi rococò tipici delle “maestranze lombarde” poiché l’Abruzzo in età barocca fu luogo di incontro di varie correnti artistiche e in particolare la lombarda, la romana e la napoletana che s’intrecciarono fra loro.
È possibile che, essendo la volumetria dell’altare non compatibile con la nuova, più ristretta collocazione, si sia deciso lo smembramento, privilegiando solo alcuni pezzi come il tabernacolo, le volute capoaltare, le alzate del gradino del dossale e i pilastri. Il De Letteriis riguardo all’altare di San Pietro, ha reperito una polizza di pagamento e un atto notarile che datano “ ad annum il nostro manufatto e ne certificano la responsabilità della commissione e della esecuzione” . Infatti il 23 agosto del 1788, in Napoli, alla presenza del notaio Nicola De Cesare, la convenzione stipulata tra Francesco Varriale e Saverio Manes, in qualità di procuratore di Gaetano Celano da Vasto, committente, stabiliva “ di far lavorare e manifatturare un altare di marmo, giusta il disegno venuto dal detto Vasto per uso della chiesa di San Pietro di detta città, perciò è venuto a convenzione di detto Signor Francesco Mastro marmoraro, in vigore della quale, avendo il medesimo prima veduto, osservato e ben considerato il disegno suddetto, e lettosi e rilettosi tutti li patti, prezzo e condizioni di detto lavoro … si è contentato esso Signor Francesco manifatturare e lavorare l’altare suddetto a tenore del detto disegno”.
La somma pattuita era di 400 ducati e la consegna sarebbe stata il 15 giugno 1789. Ricorda il De Letteriis che ne la Storia di Vasto il Marchesani inserisce i Celano tra le famiglie signorili, della ricca borghesia, e si chiede, essendo la cifra considerevole, se il Celano abbia voluto dare rilevanza alla sua famiglia e alla collegiata a cui apparteneva, magari come segno di riconoscenza per fatti che ci sfuggono. Francesco Varriale era tra i più noti marmisti del tempo; la bottega del padre Giuseppe e poi sua, aveva le giuste credenziali per essere ricercata da varie parti del Regno.
Chi invece fosse colui che ha inviato i disegni non è dato sapere. Ma secondo lo storico dell’arte: “ L’aderenza alla linguistica napoletana dell’ultimo decennio del ‘700 è tale da immaginare la paternità di un artefice partenopeo, o comunque di designer ben addentro alla temperie culturale della città … L’altare, del resto, dichiara la sua pertinenza al corpus delle opere del Varriale, stilisticamente omogeneo, improntato alla ripetizione di schemi consolidati … Non è da escludere che il nostro artefice possa aver integrato e rivisto in fase esecutiva il disegno prescelto, soprattutto sul fronte della veste ornamentale; aggiunte naturalmente sottoposte alla approvazione dei richiedenti. L’aderenza alla ormai imperante estetica neoclassica si palesa nella compostezza volumetrica dell’insieme, nodo focale dello spazio liturgico, informato a una più accorta definizione delle partiture, come a una più nitida maglia compositiva. La struttura si dichiara espressione di un classicismo temperato, meglio dire sdrammatizzato per effetto dell’innesto di complementi ornamentali di gusto rococò … L’irrinunciabile ossessione ornamentale che fece dei ricercati altari napoletani un motivo di vanto e distinzione, appare nel caso mitigata, risolta nella grafia accurata di gustose esercitazioni plastiche … una scelta volta a esaltare la forza evocativa e il naturale vivo pittoricismo delle gamme cromatiche adottate, che virano dalle tinte violacee del fior di persico ai rossi ardenti e cupi degli inserti di bariolé di Francia; dalle naturali maculazioni della breccia di Serravezza e del verde antico alle striature del giallo di Siena”.
Durante la lettura della relazione De Letteriis si prova un crescendo di disagio per la superficialità di chi ha avuto il compito di trasferire e conservare integro un patrimonio artistico d’indiscusso valore, tenendo conto poi che dal 1956 al ’59 erano passati tre anni e il tempo c’era stato per una più accorta e professionale collocazione. Così Vasto ancora una volta si presenta trascurata a disattenta ai valori e dunque alla valorizzazione della tradizione. In modo particolare ne ho esperienza in quanto fui io a proporre la pubblicazione del volume a più voci I giorni che sconvolsero Vasto, la frana del 1956, dopo il successo avuto a seguito di una proposta fatta l’anno precedente da mio marito che dopo aver conosciuto Vasto, l’amava, aveva creato in essa il primo club Unesco d’Abruzzo e da buon fiorentino si rammaricava di come in Firenze l’esondazione dell’Arno nel ’66 fosse oggetto annuale di convegni e verifiche, della frana in Vasto non si parlasse mai. L’allora presidente della Società di Storia Patria, Mario Sacchetti, accolse il suggerimento e con la collaborazione di soci quali prevalentemente Elena Volpi, si realizzò una Mostra che ebbe un successo strepitoso tanto che da essere prolungata di 15 giorni. La signora Volpi si occupò della documentazione fotografica, noi di quella relativa a reperti che dopo molto penare trovammo in parte all’interno di un fondo di un carbonaio, sistemati dietro il carbone, e in parte in altri luoghi impervi. Del resto pochi anni dopo, nei primi anni ’60, che fine hanno fatto le epigrafi del dismesso ospedale in via Anelli? Distrutti, trafugati, usati per altri scopi? E che fine hanno fatto i molti oggetti e quadri alcuni dei quali ritratti di vastesi, esistenti nel vecchio Museo chiuso a causa della frana e poi trasferito in Palazzo d’Avalos? Frequentavo le scuole medie e conobbi il Museo in visita guidata. La dovizia dei reperti, oggetti e quant’altro era enorme, niente a che vedere con ciò che oggi possiede e mostra il nuovo Museo. Dove, e in mani di chi, sono andati a finire? E che fine fatto quel bel mattonato di pietra lavica che ammantava molte strade di strade del centro storico di Vasto, sostituito da mediocre e antiestetico cemento?
* Cfr. Christian De Letteriis in Archeoclub di Sansevero, Atti del 43° Convegno nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia, San Severo 17 – 18 novembre 2022, Armando Gravina editore 2023, pp. 147 -162.