VASTO – Su una lapide commemorativa posta in una zona del porto della vicina Ortona è possibile leggere delle parole che esprimo un grido di speranza e di fiducia verso ciò che lo Stato italiano celebra ogni anno, il 2 giugno: “eterna maledizione alla Monarchia dei tradimenti, del fascismo e della rovina d’Italia, anelando giustizia dal popolo e dalla storia nel nome santo di Repubblica”.
È vero, questa ricorrenza fu istituita solo tre anni dopo il voto referendario indetto per il 2 giugno 1946, dunque nel 1949; è vero anche che i risultati furono resi pubblici alcuni giorni dopo: il 6 giugno infatti si apprese dai giornali il cambio della forma di Stato, ma è appunto il 2 giugno il giorno solenne della Repubblica italiana, un giorno che raccoglie in sé tutti i moti rivoluzionari del 19esimo secolo, dai moti carbonari del 20-21, 30-31, alla primavera dei popoli del 1848, all’Unità d’Italia del 1861, sino ad arrivare al 4 novembre 1918 (entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giusti del giorno prima). Dal 1919 quel 4 novembre è la giornata dell’Unità Nazionale che consacra gli sforzi di un secolo prima, tali per raggiungere quell’ideale di Stato unito, libero e democratico. Tutto questo, insieme al periodo fascista, di cui complice la Monarchia “dei tradimenti”, e alla Seconda Guerra Mondiale, costituiscono quel processo, si direbbe anche più che naturale, che portò al risultato referendario del 2 giugno 1946, unitamente all’elezione dell’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto redigere la nuova Carta Costituzionale.
Ancora oggi è bello leggere dai quotidiani di allora: “È nata la Repubblica”. Così, allo stesso tempo, è inevitabile sottolineare che per la prima volta furono ammesse al voto anche le donne. Volto simbolo di quella storica rivoluzione fu Anna Iberti, fotografata con il viso inserito in buco appositamente creato sulla pagina del Corriere della Sera su cui venivano riportati i risultati del referendum.
A 77 anni da questo grande passo, tuttavia, riecheggiano ancora quelle parole di Massimo d’Azzeglio che si accostano all’Unità d’Italia: «Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani», intesa come un appello alla formazione di un’identità nazionale, di un popolo che fosse consapevole di essere spiritualmente unito da tratti comuni come la lingua, la storia, ma anche una religione. Oggi, dopo 162 anni dall’Unità, è lecito parlare di un’Italia come grande Nazione, con un grande senso patriottico, quantunque, a volte, venga meno la fiducia verso l’Italia come Istituzione repubblicana, gridando qua e là rimandi ad un “migliore” periodo fascista o anche monarchico, se non addirittura ad una utopica Padania. Un popolo, tuttavia, ha votato e dalla volontà collettiva delle persone è emerso un anelito che invoca il “nome santo di Repubblica”, di democrazia e tale deve essere la nostra dedizione verso uno Stato di cui ogni cittadino è parte e per il quale è chiamato ad impegnarsi, dando sempre maggiore attuazione a quei valori e a quelle istanze raccolti nella Carta Costituzionale tanto invidiata nel resto del mondo.
Le immagini di questi giorni, il sostegno alle popolazioni alluvionate sono il simbolo concreto dell’Italia, «una e indivisa», nel segno e nella condizione di una koinè culturale e sociale.
Auguri, Italia! Auguri, Repubblica Italiana!