VASTO – Alzi la mano chi non ricorda dove si trovava il 23 maggio 1992, quando il tratto autostradale di Capaci esplose ingoiando i sogni di giustizia del giudice Falcone, le speranze della sua scorta e le aspirazioni di un’intera nazione di vedere il nostro Paese finalmente libero dalle mafie di ogni tipo.
L’anno prima, dal 7 al 9 giugno, a Vasto si svolse il convegno dell’Associazione Nazionale Magistrati, ospitato nel Palazzo del Tribunale. Ero, all’epoca, un giovane giornalista pubblicista, e collaboravo in qualità di informatore con RaiTre Regione Abruzzo. Seguii con solerzia i vari interventi ed ebbi la ventura di trovarmi nella stanza dove passò il Giudice Falcone, scortato dai suoi giovani agenti. Vidi anche da lontano il Giudice Borsellino, ma la mia attenzione fu calamitata dal magnetico magistrato palermitano.
C’erano tante persone, e stringere la mano di Falcone fu davvero difficoltoso: lui salutò tutti con una cordialità triste, quasi consapevole del proprio tragico destino. Una cosa mi è rimasta impressa di quel giorno: mentre lui camminava nei corridoi del Palazzo di Giustizia, al suo passaggio si apriva un grande spazio, un inconsueto vuoto.
Qualcuno, più autorevole di me, ha scritto che Falcone era già un morto che camminava. A me, giovane cronista, si scolpirono nella memoria la sua solitudine in mezzo alla gente, la muta consapevolezza di ciò che lo attendeva dopo meno di un anno e il suo profondo carisma che teneva tutti a distanza.
E spiegare tutte queste sensazioni ed emozioni ai ragazzi in classe mi ha fatto rivivere quei lontani giorni del giugno 91, quando, parafrasando Leopardi, la memoria era ancora breve e la speranza ancora grande.
Fabrizio Scampoli