Il 1992 è stato un anno in cui la mia generazione – che già da tempo gustava il nettare di una rivoluzione culturale – ha perso una lotta contro il potere. Contro lo Stato. Ma soprattutto, quelli della mia età, hanno perso due grandi uomini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Politicamente i primi anni ‘90 erano ben rappresentati dal pentapartito, un coacervo di partiti che hanno tenuto su – nel bene e nel male – l’Italia dal 1981 al 1991. Dopo le elezioni del 1992 la maggioranza di governo perse un pezzo – il Pri – e diventò quadripartito conservando la maggioranza assoluta dei seggi ma fermandosi al 48,85% pari a 331 seggi alla Camera e 163 al Senato.
Da quel sistema politico fatto di intrecci e corruzione, sognammo di uscirne con l’inchiesta “Mani pulite”. Una serie di vicende giudiziarie che ebbero inizio in una data precisa: lunedì 17 febbraio 1992. Quando, appunto, il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese e ottenne dal GIP Italo Ghitti un ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI milanese. Sotto interrogatorio, Chiesa rivelò che il sistema delle tangenti era molto più esteso rispetto a quanto affermato da Craxi.
La tangente era diventata una sorta di “tassa”, richiesta nella stragrande maggioranza degli appalti. A beneficiare del sistema erano stati politici e partiti di ogni colore, specialmente quelli al governo come la DC e il PSI. Chiesa fece anche i nomi delle persone coinvolte. Le inchieste proseguirono e si estesero in tutta Italia, offrendo un panorama di corruzione diffusa dal quale nessun settore della politica nazionale o locale appariva immune. Politici e imprenditori di primissimo piano furono inquisiti e travolti da una pioggia di avvisi di garanzia. Tra questi anche Bettino Craxi, che a febbraio dovette dimettersi da segretario del PSI.
Questo era il clima in cui l’Italia viveva in quegli anni. Ma attenzione: la critica storiografica successiva ha centrato due punti fondamentali. Che l‘inchiesta è stata insufficiente a sradicare il fenomeno corruttivo in Italia. E che la stessa corruzione era un fenomeno che poneva in relazione la politica con quella società civile che si voleva ripulita da ogni colpa.
Ma quella società che tirava monetine a Craxi era la stessa che con quella politica aveva fatto un patto di non belligeranza. E che aveva percepito che quella politica era al capolinea.
Apparve, insomma, l’inchiesta giudiziaria di ‘tangentopoli’ quasi come un caos mediatico che in realtà voleva consegnare alla storia una finta rivoluzione.
Evidentemente la battaglia vera si conduceva su altri fronti. Il procuratore di Roma Francesco Lo Voi proprio oggi ha ricordato che la morte di Falcone è collegata con la politica. “Quelle stragi (Falcone e Borsellino, ndr) si rivelarono talmente controproducenti per Cosa nostra, da far pensare che qualcos’altro ci fu”. “Premesso che non mi sono mai occupato di indagini su questo punto, se si vuole arrivare a una gestione del potere in qualunque sua forma, da un collegamento politico di qualche natura si deve passare per forza.
Sennò come lo gestisco il potere? Come faccio cambiare le leggi che mi serve di cambiare? Il Consiglio comunale di Palermo non basta…”.
Francesco Lo Voi, oggi procuratore di Roma, il 23 maggio 1992 era pubblico ministero a Palermo. Erano i magistrati siciliani in quegli anni a occuparsi di mafia. Ed erano abituati a vedere cadaveri, e pure amici ammazzati.
Nell’agosto 1985, dopo gli omicidi del commissario Giuseppe Montana e del vicequestore Ninni Cassarà, si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono perciò trasferiti per motivi di sicurezza con le rispettive famiglie presso la foresteria del carcere dell’Asinara. Lì concludettero la scrittura delle oltre 8.000 pagine dell’ordinanza-sentenza che rinviava a giudizio 475 indagati a seguito delle indagini del pool, che finirono per abbracciare i più disparati settori di attività illecita di Cosa Nostra, dagli
omicidi, estorsioni, traffico di droga, intrecci politico-affaristici. L’ordinanza-sentenza portò a costituire il primo grande processo contro Cosa Nostra. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare.
C’era ancora molto da fare. Ma Falcone saltò in aria il 23 maggio 1992. Il giudice, come era solito fare nei fine settimana, stava tornando in Sicilia da Roma. Il jet di servizio arrivò intorno alle 16:45 all’aeroporto di Punta Raisi. Il boss Raffaele Ganci seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, che guidò le tre Fiat Croma blindate dalla caserma “Lungaro” fino a Punta Raisi, dove dovevano prelevare Falcone; Ganci telefonò a Giovan Battista Ferrante per segnalare l’uscita dalla caserma di
Montinaro e degli altri agenti di scorta. Falcone si mise alla guida della Fiat Croma bianca con accanto la moglie Francesca Morvillo. Con le due auto della scorta si mise in fila e imboccò l’autostrada A29 in direzione Palermo. In quei momenti, Gioacchino La Barbera seguì con la sua auto il corteo blindato dall’aeroporto di Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci, mantenendosi in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè, che si trovavano in osservazione sulle colline sopra Capaci.
Alle ore 17:58, 3-4 secondi dopo aver chiuso la telefonata con La Barbera e Gioè, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada.
Siamo tutti d’accordo a celebrare il sacrificio di Giovanni Falcone e della sua scorta. Ma è possibile che rimane solo il ricordo e null’altro?
Intanto pezzi di Stato continuano a lavorare in quella direzione. Nel sentiero tracciato da Falcone continua a operare la Direzione Investigativa Antimafia che nell’ultimo rapporto rivela che l’Abruzzo non è più tanto isola felice. In Abruzzo la camorra, la sacra corona unita, ‘ndrangheta e mafia siciliana tendono a infiltrarsi attraverso imprese legate a sodalizi extraregionali tuttora verosimilmente attratte dai cospicui finanziamenti stanziati per la ricostruzione “post sisma”.
La Direzione Investigativa Antimafia sottolinea che nel territorio abruzzese si evidenzia una sostanziale differenza tra la fascia costiera e quella appenninica. La prima caratterizzata da spaccio di stupefacenti, estorsioni, sfruttamento della prostituzione, reati predatori favoriti da una maggiore presenza di gruppi criminali pugliesi e di matrice straniera. L’altra invece è risultata maggiormente esposta a fenomeni di infiltrazione economica in parte originate dalle vicine realtà campana e laziale.
Come già evidenziato nelle recenti relazioni riguardo alle organizzazioni camorristiche era stata rilevata la presenza di soggetti legati ad esempio al cartello dei Casalesi, ai marcianisani Belforte, nonché ai gruppi napoletani Contini, Amato-Pagano, Moccia e Mallardo per i quali il territorio abruzzese avrebbe rappresentato un punto di approdo soprattutto in riferimento alle attività di riciclaggio e alla vendita di sostanze stupefacenti anche attraverso figure criminali di minor spessore.
I sodalizi foggiani in particolare le batterie della società foggiana, la mafia garganica e la frangia sanseverese dei Moretti-Pellegrino-Lanza mostrano una spiccata propensione al traffico degli stupefacenti.
Sul fronte del traffico illecito dei rifiuti e la gestione non autorizzata degli stessi l’operazione dei Carabinieri del Nucleo investigativo di Foggia e del N.O.E. di Bari e Pescara hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 6 persone nell’ambito dell’operazione “Eco”. L’inchiesta ha fatto emergere l’esistenza di un sistema criminale in capo a un gruppo di imprenditori di San Severo e della provincia di Caserta finalizzato all’illecita movimentazione di rifiuti speciali derivanti dallo scarto di rifiuti solidi urbani provenienti dalla Campania, nonché al successivo smaltimento in discariche abusive. Sono state rinvenute e sequestrate oltre 13 mila tonnellate di rifiuti non speciali e stoccati tra San Severo e Vasto.
Alcune famiglie di etnia rom insediate stabilmente nella Regione e lungo le fasce costiere pescaresi e teramane risulterebbero dedite alla consumazione di delitti contro il patrimonio ma anche alla gestione del gioco d’azzardo, alle truffe, alle estorsioni, al traffico di sostanze stupefacenti. A tali attività si associa il reimpiego dei proventi illeciti nell’acquisto di esercizi commerciali, di immobili o in attività di natura usuraria.
La zona litoranea facente capo alla città di Vasto sarebbe maggiormente interessata a tentativi di infiltrazione da parte di sodalizi collegati non solo alla più prossima criminalità organizzata pugliese ma anche a quella calabrese, campana e albanese.
A gennaio scorso 150 tra carabinieri e finanzieri hanno dato esecuzione a 20 ordinanze di custodia cautelare sgominando una organizzazione criminale composta prevalentemente da soggetti di etnia albanese dedita al traffico di ingenti quantità di sostanze stupefacenti e ad attività estorsive – condotte anche mediante l’utilizzo di forme violente e con l’ausilio delle armi – operante nell’area del Vastese. I canali privilegiati di approvvigionamento della sostanza stupefacente sono risultati essere in Calabria, attraverso accertati rapporti con esponenti delle “‘ndrine” operanti nell’area di Vibo Valentia. Lo stupefacente veniva redistribuito a livello locale da soggetti di nazionalità albanese ed italiana. Prevalentemente attraverso bar, negozi di ortofrutta, concessionarie di automobili, sale slot e servizi di scommesse.
“Quando devono riciclare denaro cercano di preservare quel territorio da morti ammazzati e auto incendiate perché dove si vende droga non ci devono essere disagi sociali”.
A dirlo è il procuratore Nicola Gratteri. E in Abruzzo qualcosa di strano è accaduto anche con il terremoto dell’Aquila: casette del terremoto realizzate dalla Protezione Civile, costate un milione di euro e mai utilizzate. Capannoni industriali ceduti in affitto dopo il sisma all’università dell’Aquila con canoni “gonfiati”, al doppio del loro valore. Centinaia di bagni chimici comprati dallo Stato per l’emergenza tendopoli ma che in realtà erano “inutili”. E ancora, “certificati di agibilità” rilasciati a 24 scuole che hanno riaperto dopo la tragedia e che sono costati quasi il trecento per cento di più. Ci sono milioni di euro concessi ai comuni fuori e dentro il cratere per realizzare “moduli abitativi provvisori” (le casette di legno) che sono spariti. E poi soldi donati e mai spesi: come il miliardo di euro offerto dall’Inail oppure il milione di euro raccolto da un cd realizzato da Jovanotti, Ligabue, Baglioni e altri cantanti.
Chi conosce bene l’Abruzzo avendo al contempo partecipato per un lungo periodo a fare la storia d’Italia è Raffaele Bonanni, l’ex segretario generale dalla Cisl. “In Abruzzo – dice Bonanni – alcuni luoghi sono stati utilizzati dalla mafia. Mafia che ripulisce i soldi nelle grandi lavatrici. Quando non c’è rumore vuol dire che le mafie fanno quello che vogliono”.
Falcone, dunque, non è morto inutilmente. Ha lasciato pezzi di Stato – e di società civile – in grado di fare il proprio dovere senza fare sconti a nessuno. Certo è che oggi come allora rimane sempre uno spettro da sconfiggere: quello del fango, dell’attacco personale. Come quando venne nominato direttore degli Affari penali al Ministero della Giustizia e venne attaccato da parte della Dc, del Pci ma anche da buona parte dei giudici. Il 15 ottobre del 1991 Falcone venne convocato davanti al CSM in seguito all’esposto presentato il mese prima da Leoluca Orlando, Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Il giudice era accusato dall’ex giudice di aver “insabbiato” le indagini riguardo il coinvolgimento di mandanti politici (in particolare dell’onorevole Salvo Lima) nei “delitti eccellenti” Mattarella, Reina e La Torre. Falcone era accusato di non aver approfondito le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia in cui parlava dei legami di Lima con la mafia. Eppure Falcone come direttore degli Affari penali al Ministero della Giustizia si fece promotore dell’istituzione della Procura Nazionale Antimafia, che avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile.
Quanti giudici, quanti giornalisti, quanti politici stanno facendo la cosa giusta ma vengono eliminati perché scomodi? Dovremmo rispondere a questa domanda per contribuire a onorare il sacrificio di Falcone.
Antonio Del Furbo