“Lo Stato deve essere in grado di processare se stesso, cioè di mettere sotto giudizio anche propri funzionari per un’analisi non corretta del rischio e deve accettare il risultato, se sbagliato. L’analisi processuale può essere anche modificata e contraddetta nei successivi gradi di giudizio, ma non stigmatizzata come ‘processo alla scienza’ e quasi come una lesa maestà: lo Stato che non riflette su se stesso non fa passi avanti”.
Lo ha affermato il giudice del tribunale dell’Aquila, Marco Billi, autore della sentenza di primo grado nel processo alla Commissione Grandi Rischi celebrato nel capoluogo abruzzese dopo il terremoto 2009, nel corso della presentazione presso il cortile della libreria Polarville in via Castello del volume Tranquilli di Alberto Orsini.
Una pubblicazione che fa una estesa cronaca giornalistica proprio di quel procedimento giudiziario, avviato dalla procura della Repubblica dell’Aquila all’indomani del sisma del 6 aprile 2009, in cui morirono 309 persone, con 1.500 feriti e 100 mila sfollati, riepilogando una vicenda complessa che si è sviluppata attraverso quasi dieci anni, decine di udienze e tre gradi di giudizio.
Gli scienziati della Cgr, in particolare, sono stati imputati di omicidio colposo e lesioni, e assolti in via definitiva nel 2016, tranne una condanna passata in giudicato per l’ex vice capo della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis, a 2 anni di carcere. L’accusa ipotizzata dagli inquirenti era di aver rassicurato la popolazione e sottovalutato il rischio sismico nella riunione del 31 marzo 2009 svolta all’Aquila, a soli cinque giorni dal terremoto distruttivo, provocando la morte di 29 persone.
Nel corso della presentazione moderata dalla giornalista del Capoluogo.it Eleonora Falci è emerso che quella sentenza di primo grado del giudice Billi ha assunto valore al di fuori dell’Aquilano e del territorio abruzzese, acquisendo rilevanza nazionale: come ha svelato il sostituto procuratore della Repubblica Fabio Picuti, che sostenne la pubblica accusa nel processo di primo grado, anch’egli ospite della presentazione, “un giovane uditore giudiziario mi ha svelato che questa sentenza viene studiata in preparazione ai concorsi per la magistratura perché è una delle più importanti in tema di elaborazione giurisprudenziale del nesso causale degli ultimi dieci anni in Italia”.
Una sentenza che, tuttavia, è stata poi parzialmente ribaltata nel giudizio di Appello e in Corte di Cassazione. “Quelli che erano contrari a questo processo e questa sentenza – ha fatto notare Picuti – direbbero che è stato un fallimento, che abbiamo perso tempo e processato sei innocenti; quelli che sono a favore della sentenza risponderebbero che la pena definitiva è anche troppo poco, avrebbero dovuto condannarli tutti a pene molto più grandi, quindi la risposta di ognuno è soggettiva”, la sintesi del pm.
Il giudice Billi dal canto suo ha ammesso che “dopo aver compiuto un lavoro così approfondito, scrupoloso e onesto intellettualmente da parte della procura e da parte mia, è stato spiacevole dover leggere con malevolenza, non sempre gratuita, i commenti alla sentenza di primo grado dove non si è accettato quello che per me è uno dei capisaldi di una società civile, appunto che lo Stato possa processare se stesso”.
Su questo punto, con una metafora quanto mai attuale l’autore Orsini ha fatto notare che “quando viene pubblicata, la sentenza del giudice Billi rischia di ‘infettare’ il sistema, come una sorta di virus benigno, e lo Stato reagisce con un antivirus: la cura, sostanzialmente. Quando è uscito il dispositivo – ha ricordato il cronista – nel giorno stesso le agenzie di stampa hanno battuto reazioni violente dei presidenti del Senato e della Camera, seconda e terza carica dello Stato. Lo Stato cura se stesso e alla fine ne esce ‘tranquillo’, per tornare al titolo del libro”.
Comunque, sempre secondo l’autore, “non importa quanto la sentenza di primo grado sia stata ritoccata al ribasso sia in termini di pene che di responsabilità. Sembra una debacle, eppure è rimasto un filo, che sottile non è, visto che 13 persone sono decedute in base a una responsabilità accertata non della persona De Bernardinis, ma del ruolo che ricopre, quello di funzionario di vertice dello Stato. Il bilancio finale è che lo Stato non ha funzionato in quella fase – ha concluso – E questa è una sentenza definitiva in nome del popolo italiano, ossia di tutta la collettività di questo Paese”.
Ma per Picuti, “questa sentenza è importante perché ha permesso di fare luce su un periodo della storia dell’Aquila che, altrimenti, sarebbe rimasto un po’ oscuro e opaco. Invece, grazie a essa – e oggi grazie a questa pubblicazione, visto che la sentenza nessuno la legge più, invece i libri sì – rimane comunque uno spaccato di luce in una vicenda non complicata, ma complessa perché ci ha visto tutti in qualche modo vittime e protagonisti. Leggere il libro di Orsini è come riaccendere la luce in una stanza che stava diventando via via più fioca”.
Un ulteriore tema importante affrontato nel corso della presentazione è stato quello della comunicazione da parte degli organi istituzionali preposti in tema di analisi del rischio, in cui i due relatori si sono trovati in non completo accordo.
“Ho percepito un cambiamento radicale, immediato, ma non sincero: l’ho percepito polemico – ha affermato il giudice Billi – Come se qualcuno volesse dire: avete condannato gli scienziati a sei anni di carcere? Allora da oggi in poi, fino al rischio del procurato allarme, vi diciamo tutto, anche l’indicibile. È una posizione altrettanto sbagliata rispetto alla precedente, mi è sembrata una reazione di chi si è sentito punto sul vivo e – polemicamente – ha esagerato in senso opposto. Poi con il passare degli anni si sono rasserenati gli animi”.
Per Picuti, al contrario, “la comunicazione è cambiata ma non direi in modo polemico, piuttosto in meglio. Oggi la pubblica amministrazione informa in modo più attento, completo e prudente: hanno preso atto che, quando si parla con la popolazione e si comunica una situazione delicata di rischio, che riguarda tutti, non si possono dire parole a caso e non si può parlare a vanvera. All’inizio della pandemia Covid – ha evidenziato il sostituto procuratore – si sentiva lo sforzo di prevedere l’effetto che ogni parola avrebbe prodotto sulle persone che stavano ad ascoltare”.
In tal senso, la lezione del processo Grandi Rischi è stata ritenuta ancora da perfezionare.
Secondo Billi, “oggi c’è fame di un’informazione non qualificata ma immediata, quale che sia e questo è esso stesso un rischio: le persone vanno alla ricerca delle notizie che vogliono sentirsi dire e chi comunica dev’essere consapevole di questa propensione a essere rassicurati e cercare conforto, più che informazione, nei media: è una forte responsabilità che incombe su chi comunica, in particolare, l’analisi del rischio”.
Per Orsini, “siamo passati da una Commissione Grandi rischi nebulosa, che firma il verbale una settimana dopo il terremoto, che non rilascia comunicati, che tiene una conferenza stampa di cui non c’è più traccia audio e video, alla conferenza stampa quotidiana sui numeri del Covid dell’allora commissario Arcuri: c’è stata un’infodemia, chiusi in casa abbiamo fatto indigestione di comunicazione sul Covid che ci ha lasciato spiazzati. In un’altra era geologica in ambito mediatico e informativo rispetto a dieci anni fa – ha concluso – se si è passati da un estremo all’altro quella della Grandi rischi è una lezione ancora non completamente appresa”.