Ho usato un termine di origine spagnola perché oggi voglio parlare di una categoria di persone che vivevano alla giornata aiutandosi con l’astuzia, perfino l’imbroglio, e che, tuttavia, ispiravano anche un pizzico di simpatia. Nel passato, in Spagna, fiorì un genere letterario con le avventure dei pìcaros cioè di popolani furbi e imbroglioni in antitesi con quello cavalleresco. Individui che non riuscivano mai ad arricchirsi. Gente povera ma dalla viva intelligenza e dalla parlata e risposta pronta che si sapeva arrangiare e procurarsi il vitto giorno per giorno in qualsiasi situazione. Per associazione di idee mi vengono in mente i personaggi del film I pìcari con la regìa di Mario Monicelli del 1987. Individui che qui da noi venivano definiti spranzìune, speranzoni e imbroglioni che campavano di espedienti. “Io vagabondo (che non sono altro)” fu una canzone di Guccini di fine anni ‘60 portata al successo da I Nomadi. Alle volte questo modo di comportarsi era una scelta volontaria di vita.
Il ricercatore storico e archeologo inglese Andrew Slade, uno dei più grandi della storia abruzzese, che abitava a Vasto e che ebbi il piacere di conoscere quando gli fui da guida nel nostro archivio comunale, ne fu un esempio. Aveva una biblioteca di ventimila volumi, era persona coltissima, benestante, un abbigliamento trasandato, dalle maniere semplici e dormiva talvolta sotto il cielo stellato; non era affatto un taccagno ma solo un tipo strano secondo la pubblica opinione. Non esiste grande genio senza una dose di follia, lo diceva un certo Aristotele già qualche secolo prima di Cristo.
Nel passato, quando ancora non esisteva la televisione, il cinema, la radio, le automobili e i computer, la gente trovava svago nell’ascoltare le storie fantastiche delle favole e delle streghe. Nell’immediato secondo dopoguerra in paese vennero a recitare, in piazza o in stanzoni, alcune piccole compagnie ambulanti di avanspettacolo, deliziando alquanto gli spettatori.
Negli ultimi anni Quaranta qui in paese stazionò per qualche giorno sul sito dell’attuale edificio scolastico, dando spettacoli, il circo Borzacchini di San Salvo/Casalbordino, con il trotto di cavalli bianchi, pagliacci, equilibristi, danzatrici, prestigiatori, fachiri mangiafuoco, saltatori ed altro. Il biglietto d’ingresso costava dieci lire.
In tale periodo, periodicamente, giravano nei paesi minuscoli gruppi di cantastorie costituiti spesso da un anziano padre con organetto e da figlie adolescenti (talvolta qualcuna diversamente abile) che cantavano raccontando qualche fatto drammatico accaduto o inventato, come ad esempio Peppino e Rosetta, Il compare traditore e La storia di Brunetto (tra l’altro uno dei successi della compianta brava ricercatrice cantante folk Graziella Di Prospero).
La tematica dei canti, come detto, prendeva spunto da fatti che destavano commozione o, comunque, scuotevano le coscienze e facevano effetto su un popolo semplice. I canti erano anche di argomento religioso come la Madonna Schiavonìa (di Montevergine), La vita di Santa Brigida, Il miracolo del grano e via dicendo.
C’erano anche gruppi di zingari le cui donne, dalle lunghe gonne sgargianti, praticavano la chiromanzia o facevano magie. Nei mercati agricoli operavano con destrezza i prestigiatori delle tre carte, quelli della ruota della fortuna, borseggiatori, funamboli e imbonitori di intrugli con portentose qualità curative: “guarisce tutti i mali senza alcuna operazione!“; venditori di lupini e di carrube; compratori di bestiame, sensali, indovini, sanaporcelli nonché venditori di almanacchi con le effemeridi, le epatte e i numeri d’oro: il Barbanera di Foligno e La Tromba di Cremona con le previsioni del tempo e i consigli per le colture agrarie.
Ricordo che tra i nomi delle fiere agricole ce n’era uno inusuale: Torre de’ Picenardi. E, ancora, i fogli volanti con i testi delle canzoni allora più in voga, ma oggi quasi dimenticate come Papaveri e papere, Mamma, Vola colomba, Vent’anni, La luna nel rio ecc., stampati a Foligno. Erano i tempi di Jula de Palma, Flo Sandon’s, Achille Togliani, Luciano Tajoli e tanti altri.
Alcuni di tali personaggi oggi li chiamano artisti di strada o girovaghi. A tale caterva appartenevano anche i medium che evocavano gli spiriti e le prèfiche, d’antica origine, che venivano ricompensate per i loro finti piagnistei nei funerali a loro estranei.
Le fiere di merci e bestiame di un tempo erano frequenti e, in genere, portavano il nome di santi: Beato Angelo a Furci, S. Antonio di Guardiola a Fresa, S. Antonio e Santa Costanza a San Buono, S. Giovina a Lanciano, S. Michele a Liscia, del Carmine a Palmoli (menzionata già nel 1646), San Matteo a Montenero, San Gaetano a Vasto, Santa Lucia a Dogliola, del Rosario a Cupello, di San Nicola e di San Vito il 15 a San Salvo e così via. In un vociare umano, con belati, muggiti, canti religiosi di pellegrini e suoni di banda esse erano affollate di contadini spesso analfabeti e creduloni. V’erano sensàli, compratori di animali e osti in baracche aventi come insegna il caratteristico ramo fronzuto: un posto di ristoro con polli allo spiedo, pignate di fagioli, gazzose e vino cotto. Per più anni di seguito la fiera di Guardiola fu frequentata da un personaggio nomade munito di una gabbietta appesa al collo, con due sportellini che si aprivano su un davanzale-contenitore e un pappagallino che, a comando, col becco pescava tra i tanti un bigliettino con su scritto la pianòite (la pianeta, il pianeta della fortuna) ossia l’oroscopo ante litteram di ciascun richiedente. I bigliettini erano multicolore e la bestiola ammaestrata nel saper pescare quello a specifica destinazione: uomo, donna, ragazzo, ragazza, scapolo, nubile. Poche frasi generiche, sempre accattivanti e con i numeri da giocare al lotto. Le adolescenti, e non soltanto quelle, ci credevano e forse ci crederebbero ancora. I giornali, le tv, le radio riportano gli oroscopi (le odierne pianete) ancora oggi in bella evidenza.
Georges Bernanos in un suo aforisma sul cibo affermò che “un ventre di miserabile ha bisogno più di illusioni che di pane”: a me sembra piuttosto un problema psicologico e non soltanto dei miserabili. Comunque da sempre le persone amano sognare e illudersi come la fine dei pescicani della canzone politica, sperare nell’avvenire. “Senza le illusioni non ci sarà mai grandezza di pensieri, né forza, impeto e ardore d’animo…” (G.Leopardi). L’uomo vive finché spera, come ebbe a dire papa Ratzinger. “Il sogno permette a chiunque di sopravvivere. Chi sogna non muore mai, perché non dispera mai. Sognare significa sperare” (Joël Dicker). E questo è la molla che dà la carica alla vita. È stato e sarà sempre così.
Un venditore di pianète è stato da me notato mentre esercitava ancora, col pappagallino, tra la folla al Corteo dei Misteri nel 2011 a Campobasso. Per un attimo ho avuto l’impressione di essere tornato indietro nel tempo.
Pierino Giangiacomo