È il benessere dei lavoratori il punto di partenza, ma anche quello di arrivo, della tesi di laurea di Emanuele Piccoli, operaio 46enne che ha deciso di tornare a studiare per approfondire un argomento a lui molto caro: quello della psicologia.
“Faccio l’operaio ormai da 20 anni – racconta a Zonalocale -. Continuare gli studi era un desiderio che nutrivo già da tempo, ma per vari motivi non sono mai riuscito a proseguire il percorso universitario. L’anno scorso ho approfittato del lockdown per rimettermi sotto e cercare di dare una svolta alla mia vita”. E i primi risultati li ha ottenuti nel mese di luglio, discutendo la tesi dal titolo “Il Contratto psicologico: un obbligo non scritto” e conseguendo la laurea triennale in Scienze Psicologiche all’Università telematica Leonardo Da Vinci dell’ateneo “Gabriele D’Annunzio”.
Qual è stato il tuo percorso di studi? Come sei “approdato” nel campo della psicologia del lavoro?
Ho studiato all’industriale e mi sono diplomato come perito elettrotecnico. Dopo aver iniziato a lavorare in fabbrica, circa 20 anni fa, ho seguito per un anno master di coaching che mi ha fatto appassionare alla psicologia, argomento che mi ha sempre affascinato e che ho continuato ad approfondire grazie ad alcuni corsi, fino ad intraprendere quest’avventura universitaria. Quello che stupisce è che esistono degli studi che dimostrano l’importanza del benessere dell’organizzazione, ma ci sono ancora delle aziende che trattano l’uomo solo come uno strumento, un macchinario per produrre e non lo vedono come l’uomo in sé o come uno strumento di potenziale a favore dell’azienda. Questo modo di agire delle imprese mi ha sempre lasciato perplesso, perché non mi è mai sembrata una strategia costruttiva e funzionale. Ho approfondito la psicologia del lavoro, proprio perché incuriosito dalle tecniche utilizzate per gestire il personale e, grazie a questo percorso, ho scoperto un mondo completamente diverso.
La tua tesi è dedicata al contratto psicologico, di cosa si tratta?
È un concetto nato negli anni ’60 che fa parte delle teorie delle motivazioni, proprio per spingere il lavoratore a collaborare con l’azienda nella crescita economica. Levinson lo definisce come ‘l’insieme delle convinzioni riguardo cosa ciascuna parte ha diritto di ricevere e cosa è obbligata a dare, in cambio dei contributi che l’altra parte offre’. Gli studi, sia quelli più datati che i più attuali, parlano chiaro: le aziende che investono sul benessere del lavoratore riescono ad ottenere risultati ben sopra la media rispetto a quelli che ottenevano prima, nonostante la crisi. Le aziende stesse hanno affermato di riuscire ad ottenere, proprio grazie a questo investimento, dei miglioramenti sia per loro che per i lavoratori. Alcuni studi affermano con certezza che investire sul contratto psicologico e sulle motivazioni sia l’unico modo per uscire dalla crisi“.
Come hai lavorato alla realizzazione della tesi di laurea?
Il mio è stato anche un lavoro di ricerca. Oltre alla parte teorica in cui vengono illustrate le definizioni di contratto psicologico, e a quella di raccolta dati sulle aziende, ho introdotto anche un questionario che ho somministrato agli operai di due aziende del nostro territorio. Per ogni azienda ho preso un campione di 25 operai, ai quali ho sottoposto un questionario di 25 domande, proprio per verificare come percepiscono l’ambiente lavorativo e come percepiscono il contratto psicologico.
Quali sono i risultati emersi da questo lavoro?
I dati emersi sono allarmanti perché guardando le risposte viene da chiedersi come si possa uscire da una crisi, se i lavoratori sono quasi o completamente assenti dagli interessi delle aziende, che preferiscono investire su progetti a breve termine che rispecchiano soltanto un benessere economico. Nella maggior parte dei casi, il benessere psicologico non viene proprio preso in considerazione, mentre è una delle cose fondamentali. Per questo, in seguito ad alcuni studi che evidenziano che emozioni positive rendono l’ambiente più produttivo e orientato a favore dell’economia aziendale, è nata la figura del Chief Happiness Officer (manager della felicità, ndr) che si occupa proprio di rendere l’ambiente lavorativo più felice. In America è un ruolo già affermato, in Italia è una figura che, anche se a fatica, si sta sviluppando.
In che modo l’emergenza sanitaria e i vari lockdown hanno influenzato questa situazione di “malessere”?
Purtroppo quando non si sta bene all’interno dell’azienda si percepisce un sentimento di sfiducia, di malcontento generale, e questo genera ancora di più la crisi rendendo difficile uscirne, si arriva ad avere un rifiuto dell’ambiente lavorativo e questa è una cosa molto grave. Il lockdown ha aggravato ancora di più questo divario, molti sono arrivati proprio a distaccarsi, a disinteressarsi dell’andamento delle aziende. Si sta diffondendo anche la sindrome di burn-out, e ci sono persone che vivono un malessere individuale anche al di fuori dell’azienda, nella società: un lavoratore stressato che vive male riversa il suo malessere anche all’esterno dell’ambiente lavorativo. Purtroppo, a volte ne risentono anche le relazioni tra colleghi ed è evidente che, nei reparti in cui i rapporti umani sono migliori, lo è anche il lavoro. È uno status generale che peggiora sempre di più e che investe vari settori lavorativi.
Basandoti sul tuo percorso lavorativo, universitario e sulla tua tesi, pensi che si possa uscire da questa situazione “conflittuale” tra aziende e personale? E in che modo?
Penso che la prima cosa da fare sia proprio investire sul benessere, perché questo secondo me non è l’obiettivo finale di un programma ma il suo inizio, quindi il primo passo per un progetto di crescita. Tutto il resto viene da sé. È necessario ripartire dal benessere della comunità organizzativa, se manca questo elemento non si riesce ad andare avanti perché non c’è impegno, non c’è fiducia, non c’è rispetto. È necessario rendere il lavoratore partecipe, portarlo in uno status di benessere, di fiducia verso i capi. È importante considerare anche la questione dell’etica, tema al quale ho dedicato una parte della mia tesi, perché molto spesso i datori di lavoro compiono scelte eticamente scorrette, e questo rompe ancora di più il contratto psicologico che si dovrebbe creare con il lavoratore.