La ripresa, il lavoro dei giovani, l’università. Un necessario cambio di mentalità. Sono i temi che irrompono con forza nella terza edizione di Maestri fuori classe, il Festival dell’apprendimento continuo che si svolge a Vasto fino al 16 luglio. Nella prima lectio magistralis, nei Giardini di Palazzo d’Avalos, i relatori sono l’antropologo Adriano Favole e il saggista Roger Abravanel.
Abravanel è autore di “Meritocrazia” e di “Aristocrazia 2.0”. A Maestri fuori classe dialoga con Francesco Marino, docente universitario e direttore della rassegna. “Meritocrazia – spiega Abravanel – è cercare l’eccellenza”. Poi sfata tre miti. Uno è economico: “Il Nord si è fermato da quarant’anni”. L’altro è lavorativo: “I dipendenti pubblici non sono fannulloni. Sono terrorizzati dal potere giudiziario, perché ad ogni decisione che prendono rischiano cause e risarcimenti e la pubblica amministrazione, se viene condannata, può rivalersi su di loro”. Il terzo luogo comune che smentisce riguarda il mondo delle imprese: “Da anni sentiamo balle. Sentiamo dire: ‘Piccolo è bello’. Invece quello che manca in Italia è la grande impresa. Quello che conta a livello internazionale sono le cinquecento aziende più grandi; noi anni fa in quella classifica ne avevamo quindici, ora solo cinque. In Italia ci sono pochissimi manager e molti imprenditori. Fare in un anno un vaccino per il Covid è un miracolo, ma lo hanno fatto le grandi case farmaceutiche. Le piccole e medie imprese italiane non assumono laureati o danno loro stipendi da fame. Oggi si laureano solo i figli dei ricchi, che non hanno bisogno di lavorare subito dopo aver terminato la scuola e che un lavoro lo trovano comunque nell’azienda di famiglia. Meno laureati di noi li ha solo l’Argentina, che è fallita nove volte”.
Secondo Abravanel, il Recovery fund e il conseguente Piano nazionale di ripresa e resilienza non saranno la panacea di tutti i mali. Anzi. “Alla fine di questi 200 miliardi o cambiamo qualcosa o noi diventiamo l’Argentina, che cento anni fa era uno dei Paesi più ricchi del mondo, primo nel settore della carne. Ma quando fu scoperta la conservazione refrigerata la classe imprenditoriale, che era aristocratica, ignorante e non faceva studiare i figli, non capì il significato di quella innovazione. Così l’Argentina perse un’occasione per lo sviluppo. Noi, invece, abbiamo perso l’occasione per passare dall’impresa manufatturiera all’impresa che produce servizi. Rischiamo di ritrovarci con quattrocento Alitalia e con una statalizzazione dell’economia”. La soluzione è l’istruzione di qualità: “Dobbiamo – afferma Ambravanel – far nascere tre-quattro università di eccellenza, visto che oggi non ne abbiamo neanche una tra le prime venti. Per far questo, ci vuole meritocrazia”.
Un freno allo sviluppo, secondo il manager, arriva anche dal sistema giudiziario: “In Italia, per ogni decisione che viene presa, c’è una causa. Il dipendente pubblico non è un fannullone, ma ha paura delle azioni legali”. Abravanel condotto uno studio sull’efficienza delle sedi giudiziarie italiane scoprendo che “c’erano quindici tribunali che andavamo meglio di quelli francesi, una decina così e così, gli altri, oltre un centinaio, un disastro. Il problema non è la mancanza di personale, che si registra anche nei tribunali più efficienti, né il maggior tasso di litigiosità al Sud, dove pure di sono tribunali virtuosi, né il livello di informatizzazione. La differenza la faceva il presidente del tribunale. Il problema è che la magistratura è troppo autoreferenziale”.
“In Italia – sostiene Francesco Marino – manca l’ambizione collettiva” e introduce nel dibattito il concetto di “familismo amorale. Ognuno fa l’interesse per sé, per la sua famiglia, infrange le regole dicendo che così fanno tutti”.
“Il problema dei giovani laureati sottopagati – risponde Abravanel – non è economico, è sociale. L’imprenditoria è rimasta a trenta-quaranta anni fa. Bisogna sradicare il familismo, oppure non ne usciamo, finiamo come l’Argentina. In Italia tramandano un sistema feudale. Bisogna capire che la cultura non è un obiettivo, ma un mezzo. In Italia il diritto allo studio è garantito come in nessun altro Paese. Quello che non è garantito è il diritto al lavoro ben pagato”.
Una lunga carriera – Nato a Tripoli nel 1946, Roger Abravanel emigra in Italia nel 1963. Nel 1968 si laurea in ingegneria chimica a pieni voti al Politecnico di Milano, vincendo il premio di “più giovane ingegnere d’Italia”. Nella stessa università, fino al 1970, svolge l’attività di ricercatore presso l’Istituto di Fisica Tecnica. In seguito ha conseguito un Master in Business Administration presso la business school Insead, dove ha ricevuto la “High Distinction”. Roger Abravanel ha lavorato per 35 anni per la società di consulenza McKinsey & Company, raggiungendo le cariche di Principal nel 1979 e Director nel 1984, terminando la sua esperienza nel 2006. Partecipa inoltre ai consigli di amministrazione dell’Istituto Italiano di Tecnologia ed è membro del comitato scientifico di Aidp e responsabile del comitato scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia. È presidente dell’Insead Council italiano e nel 2010 è stato selezionato tra i “50 alunni che hanno cambiato il mondo”, in occasione del cinquantenario della fondazione dell’Insead. Ha scritto i libri “Meritocrazia”, “Italia, cresci o esci”, e “Aristocrazia 2.0”.
Vie di fuga – Nel pomeriggio, a dare il via alla serie di incontri a Palazzo d’Avalos era stato un altro relatore qualificato: Adriano Favole, antropologo, vicedirettore per la ricerca presso il Dipartimento di culture, politica e società all’Università di Torino, dove insegna Antropologia culturale e Cultura e potere. È autore di “Vie di fuga”, libro che analizza la tendenza, diffusa nel mondo attuale, a esaltare la propria identità, che però può diventare una gabbia, perché non esistono culture autosufficienti. Cercare vie di fuga, come gli esploratori, è uno strumento di conoscenza. “Le crisi ambientali, sociali, personali – fa notare il professor Favole – sono fatte per guardare se stessi allo specchio. Siamo esseri culturali, ma anche interculturali. Siamo degli impasti di antenati. Siamo anche degli esseri metaculturali, abbiamo la capacità di riflettere su quello che noi siamo, ma la metacultura ci fa dire: noi siamo così, ma potremmo essere anche differenti”.