Una volta, per indicare un paesino nel Regno di Napoli, si usava il termine Università della Terra di… con cui Terra stava ad indicare il luogo abitato e Università la sua popolazione. Pare che alcuni nostri piccoli centri, tra cui Fresa e Lentella, siano sorti nel corso del IX secolo quando i Conti di Chieti, signori di queste Terre, a motivo di aggressioni da parte di masse brigantesche ungari e saracene che razziavano e desolavano i piccoli agglomerati rurali – com’era avvenuto a più riprese in quei tempi – abbiano ordinato ai rurali che vivevano sparsi nelle contrade di andare a risiedere presso la rocca costruita sulla sommità di una roccia più difendibile, intorno alla quale fecero costruire le abitazioni che circondarono di mura. Da ciò ha avuto inizio il borgo e la prima vita comunale.
Con l’arrivo dei Normanni i borghi furono infeudati. Federico II li chiamò “Comune” mentre Carlo I d’Angiò mise in uso l’appellativo di universitas (da universi cives). Con l’abolizione del feudalesimo nel 1806 – e comunque dal 1810 – per questi piccoli centri si tornò all’antico nome: Comune. Si tenga però presente che la storia e le caratteristiche dei comuni meridionali furono alquanto diverse da quelli settentrionali. In particolare per l’autonomia amministrativa sempre limitata e vigilata dai rispettivi feudatari.
Nel secondo decennio dell’800 si continuò ad usare l’antico appellativo: in un timbro di Montazzoli del 1818 per esempio si legge ancora Università. Con la restaurazione gli antichi sigilli vennero aboliti e in loro luogo fu messo in uso, per tutti, l’emblema dei Borboni racchiuso da una scritta circolare Conune di… Negli anni 1809/1815 alcuni Comuni tra cui Cupello, Furci, Guilmi, Lanciano, Paglieta, Vasto e altri usarono come emblema un aquilotto sormontato da una corona con la scritta La Comune di… Con l’unificazione italiana la parola universitas fu definitivamente messa da parte.
Nel corso della storia ciascuna comunità scelse e usò un proprio stemma per riconoscersi e distinguersi dalle altre. Questo da tempo immemorabile. Si pensi alle insegne militari romane. Da noi le loro tracce più antiche si trovano su documenti del periodo rinascimentale e in atti notarili conservati nei grandi archivi. Esaminando i registri di stato civile relativi agli anni 1809/1818 si può notare che ogni popolo aveva innalzato un emblema incastonato in uno scudo: lo stemma. Ogni emblema e ogni colore aveva il suo preciso significato storico. Parlo di popolo e non di famiglie nobili feudatarie perché qualche paese, dimenticando le proprie origini e falsificando la propria storia, potrebbe aver disconosciuto il suo eventuale modesto o poco appariscente emblema e aver ritenuto per proprio simbolo quello del feudatario, perché più maestoso e impressionante, magari un leone rampante o un’aquila reale. Vanità, soltanto vanità. Si tratta, comunque, di eccezioni.
Ecco alcuni esempi di antichi stemmi civici del Vastese:
– Carunchio: una rotella (sole?) in una mezzaluna crescente su un piedistallo. Universitas Carunculi. Scudo ottagonale (1816).
– Dogliola: un giglio (talvoltra tre) angioino e scritta Dogliola (1812). Il paese nel 1267 fu di parte ghibellina: si ribellò all’abbazia feudataria ma poi vinta e riportata in dominio dei monaci che furono di parte guelfa e angioina, fino alla fine del XV secolo. Scudo ottagonale. Personalmente penso che, come avvenuto a Faeto (FG), Re Carlo d’Angiò vi collocò alcune famiglie provenzali per vigilare su quella comunità.
– Furci: monaco a figura intera (il beato Angelo, protettore del paese) con libro sulla mano destra e rametto fronzuto di arancio sulla sinistra. Scudo ovale (1811).
– Gissi: scudo ovale racchiudente una scritta: Univ. di Gissi (1809). Fino ad allora aveva uno stemma con figura complessa ma indistinta per l’eccessiva inchiostrazione.
– Lentella: cerchio racchiudente un monte circondato da due fiumi (probabilmente Treste e Trigno) in uno scudo ottagonale con scritta Universitas Lentellae.
– Liscia: stemma dodecagonale con scritta Universitas Terre Lisce e racchiudente tre monti sormontati da un albero a sinistra.
– Mafalda (anticamente Ripalta o Ripalda): sbarra a scacchi bianchi e neri in uno scudo ovale circondato da una scritta Universita Ripalda sormontato da una corona (anno 1809). L’emblema era quella di Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo (i cui cavalieri normanni si impadronirono di questa zona nel 1060) che era in campo rosso, non giallo. Secondo alcuni studiosi gli scacchi significherebbero campo di battaglia vinta, armata schierata in combattimento.
– Montefalcone: tre monti sovrastati da un volatile. Scudo ovale (1815).
– Montemitro: statua di Santa Lucia, patrona del paese, scudo ottagonale (1811).
– Montenero di Bisaccia: tre monti sormontati da un albero con una croce e con le scritte viva Iddio–viva il re. Scudo ovale (1815).
– Palmoli: un castello sormontato da una palma del deserto con sopra la scritta “Palmoli” (1811). Scudo ovale.
– Pollutri: un cavallo sormontato da una P e case. Scudo ottagonale (1814).
– Roccaspinalveti: un albero (simbolo di vitalità) tra le lettere R e S. Scudo ovale (1810).
– San Buono: una vite d’uva che si attorciglia ad una quercia, simboli di adattamento e di forza.
– San Giovanni Lipioni: una croce tra le lettere S e G. (San Giovanni). Scudo ovale (1813).
– San Salvo: un tino con sette spighe di grano come testimonianza della sua antica vocazione agricola. Scudo ellittico (1817).
– Scerni: un castello sormontato da una corona. Scudo ovale (1813).
– Torino di Sangro: un toro rivolto a sinistra. Scudo ovale (1810).
– Tufillo: tre lettere G P S. in uno scudo di forma quadrata (1815). Attualmente lo stemma di Tufillo riporta le lettere T.F. forse riconducibili all’appellativo che ne fece il frate Razzi nel 1577 il quale la disse terra assai civile “Toffillo, quasi To figlio: o vero grecamente ton filon, hoc est amicorum, quasi Terra degli Amici”.
– Villalfonsina: lettere VA sovrastanti una figura animale (lupo? capriolo?) scudo ovale racchiudente altro scudo poligonale (1815).
Oggi, in base a precise disposizioni legislative, ogni emblema è racchiuso in uno scudo, per lo più di forma sannita, sormontato da una corona turrita color d’oro per le città e argentea per i paesi più piccoli. Il tutto riportato nel gonfalone usato nelle grandi occasioni. Il gonfalone è rappresentato da un drappo rettangolare di cm 90 per cm 180 sospeso ad un’asta perpendicolare all’asta verticale. Lo stemma presenta ai lati un ramo di quercia ed uno di alloro legati alla base da un nastro tricolore.
Per Fresagrandinaria esiste un’impronta del suo antico sigillo in un documento del 20 maggio 1682. In esso è rappresentato una viverna (cioè un drago a due zampe simile all’emblema della città di Terni, ma rivolto a destra) in una scritta circolare Frisia Grandinaria. Tale simbolo è probabilmente riconducibile al popolo nordico (Frisi o Frisiani) da cui derivò il nome al paese, oppure potrebbe essere stata l’arma dei Grandinato. Ma chi lo potrebbe affermare con certezza? Ridisegnato dal nostro prof. Antonio Petrucci, il simbolo fu riconosciuto come proprio dal Comune con atto consigliare n. 8 del 24 marzo 1984 a voti unanimi. Esso fu ufficialmente concesso dalle competenti autorità. Lo stemma viene così descritto: d’azzurro, alla banda (sbarra nda) d’argento, caricato dal drago d’oro, rivoltato, ignivomo, con due zampe, attraversante. Il Gonfalone viene così presentato: drappo partito di rosso e di bianco riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dello stemma con la iscrizione convessa verso l’alto: Comune di Fresagrandinaria.
I colori rosso e bianco sono stati scelti per ragioni storiche, dai colori della città del Vasto perché anticamente queste contrade facevano parte del Municipio di Histonium, dai colori della città di Spoleto perché facemmo parte di quel Ducato, dai colori dei Normanni di Puglia, dai colori della Frisia e, se si vuole, per simboleggiare la compositezza della nostra gente. Le due parti azzurre, tenute insieme dalla banda, vogliono simboleggiare i due villaggi esistenti ancora nel 1267 nell’odierno territorio e cioè Frisia e Cornacchiano, i quali poi si riunirono in Fresagrandinaria.
Pierino Giangiacomo