Laura Oliva, insegnante di Lettere all’Istituto d’istruzione superiore Mattei di Vasto. Cosa significa tornare in presenza?
“Tornare in classe, al di là dei facili sentimentalismi, è, per me, tornare al lavoro che ho scelto. La scuola è fatta di atmosfera, di vite che si intrecciano, di traguardi, di sconfitte. Ha poco a che fare con la freddezza di uno schermo: è partecipazione, condivisione. In una parola è empatia. È il luogo che sfida le leggi di mercato: posso dare agli altri quello che so senza impoverirmi, anzi… mi arricchisce sapere che chi riceve ha fatto buon uso del mio dono”.
Quali sono i lati negativi e quelli positivi (se ce ne sono) della didattica a distanza?
“La didattica a distanza è strumento valido per chi la sceglie consapevolmente. Se desidero seguire un corso di mio interesse, farlo da casa può essere un vantaggio. È una possibilità che, per un adulto, può di sicuro trasformarsi un una opportunità. Uno studente ha bisogno di altro: non sceglie la scuola soltanto perché si è appassionato ad alcune discipline. Sceglie la vita lungo i corridoi, le chiacchiere con il compagno di banco, sceglie il confronto con i suoi insegnanti. La didattica a distanza ci ha concesso di riempire i vuoti scolastici a cui questo lungo anno pandemia ci ha costretti, ma non si illude di aver sostituito il fare scuola”.
È vero che nella didattica a distanza gli studenti tendono a distrarsi maggiormente?
“Le telecamere spente che ci restituiscono su uno sfondo grigio i nomi dei nostri alunni sono un segnale palese di assenza, i rifiuto, non di distrazione. In classe si può abbandonare l’aula con la testa senza che qualcun altro se ne avveda. Distrarsi è desiderio di andare altrove in ogni caso, di cambiare direzione. In Dad si fa fatica a mantenere vivo il desiderio, a trovare stimoli efficaci. Paradossalmente proprio perché non si è distratti da nulla, è difficile concentrarsi. I ragazzi reclamano ascolto ed è bastata questa settimana passata con loro per ristabilire legami, per provare ad annullare le distanze”.
Il governo ha fatto una parziale marcia indietro sul ritorno in classe al 100 per cento. Secondo lei, far tornare tutti a scuola indipendentemente dai dati sulla pandemia sarebbe stato rischioso in termini di contagio?
“Sono felice che questa volta abbiano messo la salute delle persone davanti alle questioni della politica. Si sono commessi tanti errori e tanti, forse, ne faremo. Per quello che abbiamo avuto dino ad ora, già tornare a scuola al 50 per cento ci sembrava un regalo, una fortuna per cui essere grati. Forzare la mano sarebbe stato imprudente. E, nella precarietà in cui siamo, siamo stufi d’imprudenze e di imposizioni dall’alto da parte di chi sembra non avere la ben che minima percezione di che voglia dire riunire in un unico edificio centinaia e centinaia di alunni dalle provenienze più disparate. La scuola può anche essere un luogo sicuro grazie agli sforzi di tutti, ma non possiamo gestire con leggerezza ciò che gira attorno, né possiamo scommettere sulla condotta di molti ragazzi una volta fuori dai cancelli. Limitare la presenza a scuola è un modo per non congelare, ancora una volta, le nostre speranze; non azzardare soluzioni populistiche tralasciando buonsenso e bene comune, è l’unico modo che abbiamo per affrontare la realtà senza cercare scorciatoie”.
In questo periodo ha attuato iniziative interessanti, come quella delle spillette contro i luoghi comuni. Ce ne vuole parlare?
“Ho continuato a fare scuola nonostante i mezzi fossero cambiati, nonostante i luoghi non fossero quelli consueti. In alcuni casi ci si può riuscire, in alcune situazioni di deve perlomeno tentare. Nella prima devastante ondata di marzo scorso, con i ragazzi della quinta chimica del Mattei, il discorso era diverso: dovevano riuscire a trovare un finale diverso, rispetto a quello che si stava profilando, ai cinque anni passati insieme e ci siamo inventati Quorintana. Le parole che ci scrivevamo tutte le sere ci hanno sorretto e tenuti uniti, hanno dato un senso al nostro andare, trasformandosi in una raccolta fondi per il reparto Malattie infettive dell’ospedale di Vasto a cui tutta l’Italia ha partecipato con donazioni da ogni regione.
Le cose ora sono state diverse: ho tentato di sfruttare al meglio le risorse che la didattica digitale integrata può fornire, senza cambiare il modo di fare scuola. Non amo che si proceda per compartimenti stagni, che anche la nuova società si lasci inglobare da pregiudizi e stereotipi: tutto sta nel non continuare a commettere errori proverbiali. Con gli alunni della seconda B Liceo scienze applicate abbiamo cercato di aprire gli occhi ad un nuovo sentire e siamo partiti dai proverbi più discriminatori per abbattere, attraverso di essi, concezioni desuete che continuano ad impedire all’essere umano di potersi dire sensatamente tale. La creatività dei ragazzi è una miniera inesauribile che fa ben sperare e guardare al dopo con ottimismo: la speranza è il pane dei poveri? No, consideriamolo un altro errore proverbiale. Mai come ora suona meglio così: la speranza è il pane quotidiano di tutti”.