Di cosa parliamo – Quando non si può festeggiare in compagnia, come in questa seconda Pasqua limitata dalla pandemia, è facile che il pensiero vada alle feste degli anni scorsi e anche a quelle che furono. Alle tradizioni. Ricordi in libertà, quelli che abbiamo raccolto dall’architetto Francescopaolo D’Adamo, cultore della storia vastese. Con il suo racconto, ci porta a oltre mezzo secolo fa. Qui raccontiamo le celebrazioni religiose e i preparativi in famiglia.
La religione – “Negli anni Sessanta Vasto era solo il centro storico con le sue chiese principali: San Giuseppe, Santa Maria e Sant’Antonio, che sostituiva la chiesa di San Pietro, demolita a seguito della frana del 1956”, racconta D’Adamo. “Tra i bambini, quasi tutti i maschi facevano i chierichetti. Ricordo che nel 1963 il parroco, don Felice Piccirilli, per il rito della lavanda dei piedi utilizzò i chierichetti, che il Venerdì Santo partecipavano tutti alla processione. Il venerdì e il sabato, visto che si legavano le campane, i fedeli venivano avvisati con uno strumento che ognuno chiamava a modo suo, qualcuno lo chiamava battocchio: era una tavola con due ferri laterali che, battendo sul legno, facevano un rumore per avvertire la gente dell’imminente inizio della celebrazione. La processione che più mi coinvolgeva e mi coinvolge è quella dell’Addolorata. Perché? Per la statua della Vergine: per la sua espressione, non ha niente da invidiare alla Pietà di Michelangelo, tant’è che tempo fa una sovrintendente mi disse che quella statua era meglio che non uscisse troppo dalla chiesa di piazza Rossetti, perché è troppo bella per esporla alle intemperie. Sono d’accordo, anche perché ormai molti guardano la processione con curiosità più che con la fede. Poi, la notte di Pasqua, da ragazzini la trascorrevamo con gli amici a giocare a pallone in piazza”.
I preparativi – “A Vasto le festività pasquali sono precedute dalla celebrazione della Santa Spina, ma la preparazione alla Pasqua inizia già dalle Ceneri. Una volta, durante la Quaresima, i credenti facevano i fioretti: non mangiavano dolci, né cioccolato. Ma tradizione voleva che i dolciumi fossero pronti già per il giorno della Santa Spina e se non erano pronti le nonne si preoccupavano: ‘Domani è la Santa Spina e non ancora abbiamo fatto i dolci’. Chi aveva il forno, li cuoceva a casa, per gli altri era un via vai verso e da i forni cittadini. Spesso i panettieri venivano ricompensati lasciando loro una parte di quelle prelibatezze. E poi c’era il fiadone. Salato col formaggio, oppure dolce con o senza riso, con o senza latte. Insieme ai taralli lessi bagnati nel vino, poteva mai mancare sulle tavole a Pasqua e il giorno dopo, a Pasquetta”.