Visite a domicilio scandite dall’orologio, decine di chilometri macinati ogni giorno per raggiungere i numerosi comuni dell’entroterra vastese tenendo bene in mente che a volte basta la giusta dose di umanità per attenuare la preoccupazione di chi è stato contagiato dal virus.
Annalisa Di Stefano, 30 anni, di Furci, dall’aprile dello scorso anno è in servizio in una delle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (conosciute meglio come Usca) che le Asl hanno avviato sul territorio con il fondamentale compito di monitorare la situazione dei pazienti a casa.
La sua unità, in questa seconda fase, opera nel territorio del distretto sanitario di Gissi con 19 comuni distribuiti in una vasta area che va da Castiglione Messer Marino a Guilmi passando per Palmoli, Carunchio ecc.; nella prima ondata (quella della primavera 2020), invece, è stata in servizio all’Usca di San Salvo Marina.
Da quasi un anno, insieme a tanti colleghi, è impegnata in quella che è la primissima linea nella lotta al virus: le Usca, attivate dal medico di base, sono chiamate alla sorveglianza dei positivi in isolamento domiciliare (ad oggi in Abruzzo ce ne sono 12838) monitarando le loro condizioni e, se necessario, disponendo il ricovero in ospedale.
[ant_dx]Innanzitutto, com’è andato quest’anno?
All’inizio ci sono state difficoltà pratiche e logistiche. La prima fase è andata abbastanza liscia, non c’erano i grandi numeri di oggi e i casi andavano direttamente in ospedale, ora invece restano sul territorio. Gli ospedali sono pieni, quindi si cerca di tenere a casa il più alto numero di persone per lasciare liberi i posti per i pazienti più gravi. Con il monitoraggio continuo si tiene sotto controllo la situazione e nel caso si interviene con il 118.
Tu hai vissuto tutte le fasi di questa pandemia, cos’è cambiato dalla prima a quella attuale?
Il numero delle persone coinvolte, non la patologia. Nella prima fase le persone col virus erano quelle che in qualche modo avevano avuto contatti con l’area del nord: ad esempio camionisti che per lavoro avevano viaggiato in quelle zone, chi tornava da stage o convegni. Adesso, invece, è fuori controllo ed è questo a far paura: non si riesce a tracciare e a contenere il virus. Questo accade anche perché, a volte, si negano i contatti avuti: positivi che tendono a minimizzare o a negare del tutto di aver incontrato altre persone per evitare una brutta figura visto che quella frequentazione non ci sarebbe dovuta essere a causa delle restrizioni; oppure c’è chi non vuole farsi i tamponi. Dovrebbe guidarci il senso civico, ma non sempre accade.
Qual è la giornata tipo di un medico Usca?
L’entroterra, a parte alcune situazioni particolari, non ha numeri altissimi: siamo sulle 3-4 attivazioni a settimana, a differenza delle 3-4 al giorno della costa. La difficoltà principale sta nella grandezza del territorio. La giornata inizia nella sede di Gissi dove si fa una ricognizione telefonica di tutti i pazienti, si valutano eventuali attivazioni sentendo anche i medici di famiglia e il soggetto interessato. Se c’è necessità, si interviene. La prima cosa che chiediamo al paziente è se ha a disposizione un saturimetro. Se non lo hanno, la Asl ci ha consegnato saturimetri da lasciare in comodato al paziente fino alla guarigione.
Dal mese di novembre abbiamo un Oss che ci accompagna e ci aiuta nella vestizione e svestizione, poi attende fuori per non esporsi a un rischio inutile. La visita dura al massimo 15 minuti per evitare ulteriori rischi di contagio, prendiamo i vari parametri e si fanno svolgere al paziente degli esercizi – ad esempio un test della camminata – per valutare la saturazione dopo lo sforzo fisico. In casi particolari effettuiamo un’ecografia polmonare.
Sei a contatto con il virus tutti i giorni, immagino che il timore principale sia di riportarlo a casa.
Sì, ma è pur vero che i nostri dispositivi di protezione sono maggiori di quelli di chi, ad esempio, lavora in reparti ospedalieri non-Covid o dei medici di famiglia. La paura è stata quella fino al 6 gennaio, oggi mi sento sicura a svolgere questo lavoro con le protezioni che abbiamo anche perché se ne dovessimo restare sforniti non usciamo; finora non è mai successo, le nostre richieste sono sempre prontamente evase dalla farmacia ospedaliera. Un po’ più di timore c’è per quanto riguarda la svestizione perché se ci si sveste in modo non corretto i rischi ci sono. Diciamo quindi che la paura c’è, ma è razionalizzata perché sei cosciente di essere protetto. In tanti mesi di attività nessuno dei colleghi del nostro distretto è stato contagiato. Da protocollo ci sottoponiamo a tampone ogni 15 giorni.
Nelle vostre visite domiciliari che tipo di paziente incontrate?
Persone spaventate nella maggior parte dei casi. Uno dei sintomi che più riscontriamo è l’ansia perché, ovviamente, è difficile restare tranquilli di fronte alla notizia della positività. C’è paura perché le immagini che si vedono in televisione sono reali. Oggi c’è tanta informazione e le cronache raccontano di casi precipitati da un momento all’altro, purtroppo può capitare. Un altro timore è legato all’impossibilità di isolarsi a casa esponendo al contagio i propri cari.
Alla situazione pratica, quindi, si aggiunge anche la pressione psicologica che non è secondaria: c’è tanta ansia, chiamiamo molti pazienti in buone condizioni anche 2-3 volte al giorno solo per tranquillizzarli, li comprendiamo e ci mettiamo nei loro panni. Bisogna essere umani prima di tutto, poi pure medici.
Qual è il rapporto con i pazienti, ad esempio, come venite accolti? Le squadre Usca hanno un’età media non molto alta, questo fattore com’è visto?
Diciamo che il tipo di accoglienza si differenzia dal tono della domanda “Quanti anni hai?”: c’è chi pensa “Questa mi deve curare?” e chi, invece, resta favorevolmente sorpreso.
Tendenzialmente c’è il paziente polemico e quello che si affida completamente al medico e lo segue, quello che nonostante le rassicurazioni fa continue telefonate, quello che non vorrebbe prendere nulla allora si riempie di vitamine e quello che vuole subito una terapia anche se non c’è.
Tra le tante storie che hai conosciuto ce n’è qualcuna che ricorderai più di altre?
Sì, una su tutte, quella di un anziano che vive da solo in un paese nell’Alto Vastese. La famiglia è lontana, a Roma, e la vede solo per le feste e durante l’estate. Sarebbe dovuto partire all’inizio del mese di dicembre per passare tutte le feste con il figlio. Si è sottoposto a tampone per scrupolo qualche giorno prima della partenza. È risultato positivo e non è partito nutrendo la speranza di poterlo fare più in là. Ha ripetuto il tampone poco prima di Natale, ancora positivo, così come accaduto prima di Capodanno. Ne è uscito dopo l’Epifania. Fortunatamente, stava bene, lo chiamavamo e ci diceva che passava il tempo davanti al camino e ripeteva “Io vorrei vedere i miei nipotini perché mi sento bene, ma ho paura di poterli infettare, per questo finché il tampone non verrà fuori negativo non mi muovo di casa” mostrando un senso di responsabilità esemplare.
Un altro giorno che dimenticherò difficilmente è stato quello in cui avevamo cinque visite domiciliari a Castelguidone: c’erano tre gradi e ci siamo dovute cambiare in strada sotto la pioggia e con il vento gelido.
Infine, vorrei sottolineare la gentilezza e la grande disponibilità della dottoressa Michelina Tascione, direttrice dell’area distrettuale, ci è sempre stata vicina per ogni problema. Si è ritrovata con una situazione non semplice da gestire, ma non ha mai fatto mancare supporto e aiuto. Alla fine di questa esperienza porterò con me la grande famiglia Usca, amicizie nate in un momento delicato in cui tutti sono stati una spalla per l’altro.
Veniamo a un altro grande tema, quello dei vaccini. Prima hai citato la data del 6 gennaio, per te quest’Epifania ha avuto un significato importante…
Sì, il 6 gennaio ho ricevuto la prima dose del vaccino Pfizer, il 27 dello stesso mese la seconda. Purtroppo ho avuto a che fare con il Covid anche a casa. La notizia della positività di un familiare ti fa letteralmente crollare il mondo addosso, il primo pensiero va a tutto quello che di brutto potrebbe accadere, si finisce inesorabilmente per piangere, un po’ per panico forse. Poi però bisogna pensare alle cose pratiche: chi porterà il cane fuori? A chi potrò chieder il favore di farmi la spesa? Dove ho messo il saturimetro che ho acquistato in tempi non sospetti? Nel mio caso avere avuto un contatto stretto (senza dispositivi di protezione) con un positivo non ha generato nessuna infezione e questo solo grazie al fatto che avevo ricevuto le mie due dosi di vaccino a fine gennaio. Non mi sono infettata né ho infettato i miei genitori. Sicuramente i più bei regali di questo 2021 sono stati il vaccino e la certezza che ad avere fede nella scienza non si sbaglia mai! L’ho testato e ha funzionato: zero sintomi, zero trasmissione verso terzi.
C’è gente che sta ore e ore al microscopio, a studiare, a riversare la propria professionalità in un farmaco eccezionale che è il vaccino, non capisco lo scetticismo di alcuni.
Hai anticipato la mia ultima domanda: cosa pensi alla fine di una giornata lavorativa quando leggi o ascolti persone che mettono in dubbio il vaccino o addirittura l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo?
In uno Stato democratico ognuno è libero di fare ciò che vuole, ma bisogna ricordare che la libertà mia finisce dove inizia la tua. Per raggiungere un’immunità che ci permetta di tornare alla tanto agognata normalità bisogna sottoporsi alla vaccinazione. Gli effetti collaterali, rari, che si possono avere sono noti e a ognuno di loro c’è una soluzione. Penso che debba esserci l’obbligo vaccinale perché si stanno mettendo a repentaglio non solo l’economia della nazione, ma soprattutto la sanità mentale delle persone perché le conseguenze psicologiche sono tante.
Senza vaccino io avrei preso il virus e non so come sarebbe andata. Se tutti ricorressimo al vaccino, potremmo tornare in breve a non aver più paura dell’altro né ad aver paura dei rapporti con l’altro. Quando lo faremo tutti, potremo dire che è diventata una semplice influenza, non ora.
Per quanto riguarda i negazionisti, la situazione è sotto gli occhi di tutti, chi oggi nega non ha alcuna cognizione. Ad oggi è davvero difficile non conoscere una persona vicina che abbia avuto il virus. Sinceramente non capisco come possa esistere il negazionista e ciò che non capisco non commento. Dopo un anno sono stanca di dare spiegazioni a chi non ha strumenti per comprenderle. Il tempo che abbiamo a disposizione non è infinito e passarlo con chi non ha nessuna intenzione di ascoltare è la più grande perdita.