“Il carnevale è un periodo di tripudio popolare… una stagione psicologica che ci riporta, in clima cristiano, agli antichi Saturnali celebrati anche da noi come a Roma; ma ci riporta anche alla gazzarra medioevale che consentiva l’allentamento dei vincoli sociali, secondo quel detto…A Carnevale – ogni scherzo vale”. Etimologicamente la parola è incerta; potrebbe derivare dal latino “carnem levare” cioè eliminare il consumo di carne dopo l’abbuffata del martedi grasso, ma è, comunque, un vocabolo molto antico.
La “corte” di Carnevale – dal 17 gennaio al martedi antecedente le Ceneri – era caratterizzata da una euforica gioia nelle persone di allora, le quali avevano ben compreso il senso vero della vita. Pur vivendo una esistenza travagliata e di privazioni, essi sapevano istintivamente quando era tempo di gioire e di piangere, di lavorare e fare l’amore, di dormire e di vegliare come sapevano cantare e divertirsi anche durante il lavoro nei campi. Nel periodo predetto, al semplice suono di un organetto, in numerose piccole casette dove c’erano le ragazze, si metteva ballo: si ballavano la spallata, la saltarella, il valzer, la quadriglia, la mazurca, la polca ed altri; mentre la padrona di casa offriva vino, qualche volta il rosolio e della cicerchiata, un dolce tipico del periodo. C’era un clima di allegria e spensieratezza secondo la massima di Seneca: semel in anno licet insanire e cioè una volta all’anno è lecito folleggiare per scaricarsi un po’ delle preoccupazioni e ripartire spediti. In una società in cui la mortalità infantile era molto frequente, le coppie combattevano la morte creando nuova vita. La perdita di un bimbo dispiaceva e molto pure ma, a tempo debito, ne facevano un altro e poi un altro ancora. Così la popolazione aumentava sempre.
Nei pomeriggi domenicali i ragazzi usavano mascherarsi, cioè tingersi la faccia con un sughero bruciacchiato o con il nero untume di una fessora e recitare tiritere improvvisate. Si praticava l’altalena su una fune appesa ad un ramo sporgente o anche ai gangheri del portone. I soli uomini si travestivano anche da donna con parrucche di stoppa e abiti ornati con gale; le coppie in corteo si fermavano nelle piazzette formando un cerchio dando spettacolo e divertimento. Tra loro vi era un personaggio chiamato lu pulgiunèll? (il pulcinello) con cappello alto a cono, coccarde fatte con striscioline di carta crespa colorata, spalline e galloni, fusciacca e stivali, il quale dava i tempi e impartiva i comandi facendo schioccare lo staffile come un domatore di bestie feroci. Le coppie si alternavano al centro ballando e cantando strofe di cantastoria in chiave satirica e comica ispirata ad una vicenda boccaccesca avvenuta nell’anno. Evento messo in rima da un occasionale, improvvisato verseggiatore dialettale che non mancava mai. Questo avveniva anche nella vicina Lentella dove, tanti anni fa, si organizzò un carnevale ispirato alla fuga di un garzone con la padroncina con la collera del padre di lei; lo spettacolo fu tenuto anche a Fresa. Ma nessuno se ne risentiva. Era un teatro di strada che gli spettatori apprezzavano, applaudivano offrendo generosamente salumi, dolciumi e vino a tutti. Carnevale è sinonimo di buffone mascherato, di persona poco seria, dai vestiti e comportamenti strani. So fatt? carnivàl? vuol dire aver fatto un’abbuffata di cibo succulento. Siccome ogni famiglia contadina allevava qualche capra, nel periodo si consumava la tenera carne del capretto.
Uno dei tanti scherzi usati fare era lu pupòun? (il peperoncino): quando due attempati vedovi si risposavano tra loro i buontemponi del quartiere, nascosti nei paraggi, aspettavano che gli sposi si coricassero per incendiare un incarto con una miscela di polvere pirica e peperone piccante introdotto in una fessura della finestra, sotto la porta o nella canna fumaria della casa. Il fumo acre e il bruciore provocavano lacrimazioni, tosse e una sequela di starnuti in modo così violento da costringere i novelli sposini ad uscire precipitosamente all’aperto tra le risate e le sghignazzate dei burloni. Altra figura buffonesca che faceva molto ridere era quella del mortaio pelvico: la figura antichissima di una persona travestita, con un mortaio di legno appeso con la bocca in giù alla cintola, davanti, tra le cosce; una funicella ritorta messa un poco più su delle ginocchia su cui si introduceva il pestello in modo che allargando e stringendo le gambe il pestello risalisse battendo sul mortaio. Era una chiara allusione. Per questo era disapprovato dalle puritane con la mentalità ferma al tempo di donna Berenice, quando v’erano argomenti tabù ed era disdicevole nominare perfino le gambe del tavolino e, per indicare la fornicazione tra persone non sposate, si usava l’eufemismo ci ha dormito assieme; nel contempo, la scenetta del mortaio pelvico era un modo per sbellicarsi dalle risa delle più evolute e smaliziate le quali, a volte, chiedevano anche il bis.
Uno dei tanti giochi praticati dai ragazzi era lo zumba cavallìtt?, che in italiano si chiama alla cavallina. A Fresagrandinaria una variante del gioco prevedeva che i giocatori si dividessero in due squadre di tre elementi ciascuna. Con la conta una di esse faceva da “base”: un giocatore si poneva, ritto e con le spalle al muro, mentre gli altri due, a contatto, gli si ponevano di fronte in posizione incurvata, uno dietro l’altro. La squadra dei “saltatori”, a turno, dopo breve rincorsa dovevano saltare in groppa ai basisti (che cercavano in ogni modo di disarcionarli) e mantenervisi per un tempo prestabilito senza toccare i piedi per terra; altrimenti si perdeva e le squadre cambiavano di ruolo.
Va da sé che il primo a saltare fosse il più agile per lasciare più spazio, agevolando così gli altri due. Spesso succedeva che il terzo, non riuscendo a trovare spazio o non saltando bene ricadesse malamente provocando la sconfitta della squadra. Al coperto si facevano dei giochi di società come la rottura della pignata di terracotta contenente dolciumi; all’aperto se ne facevano altri, talvolta singolari. A Roccavivara un tempo si usava sotterrare un gallo lasciando scoperta la sola testa: il giocatore designato, con gli occhi bendati e un bastone, aveva diritto di menare alla cieca un determinato numero di colpi cosicché, se riusciva a colpire la testa della povera bestiola, aveva vinto con l’applauso degli spettatori. Mark Twain ebbe a dire che fra tutti gli animali l’uomo è il più crudele. Ma alla gente di allora piaceva così.
In tempi relativamente più recenti questa comunità ha organizzato sfilate con carri allegorici, balli di gruppo all’arena e recite a tema con simpatici personaggi come Carnevale, Vessirella sua moglie, Quaresima, Barbariccia col suo caval topone e suoi allievi, il fantoccio da bruciare. Il tutto per un sano divertimento fuori omologazione.
Pierino Giangiacomo