Nel passato sono vissuti molti santi col nome di Antonio ai quali sono stati dati un proprio appellativo: Abate, di Padova, Cauleas, Gonzalez, Maria Claret, Maria Gianelli e altri sei. E ciascuno di essi ha una propria immagine, una personale iconografia. Sappiamo ad esempio che una palma indica martirio, un giglio bianco significa purezza e una lingua di fuoco è simbolo di fede. Sant’Antonio di Padova viene rappresentato sempre con un giglio in una mano e il Bambino Gesù nell’altra. Sant’Antonio abate, che fu un eremita egiziano vissuto tra il III e IV secolo, figura invece sempre con una lunga barba, un bastone con campanello, una lingua di fuoco in una mano e un libro nell’altra, oltre che ad un cinghiale o un porchetto ai piedi.
Quella del Sant’Antonio abate detto il Grande, festa 17 gennaio, è una tradizione ultrasecolare: intanto diciamo che nel territorio fresano esiste una contrada chiamata ancora Sant’Antuono; sappiamo che una contrada col nome di un santo era anticamente, di solito, sede di grancia cioè di una fattoria ovvero un nucleo di casolari e pagliai, con una cappellina dipendente da un’abbazia madre.
Sappiamo anche dell’esistenza nel 1568 dell’ospedale di S. Antonio di Vienne (città della Francia dove all’inizio dell’anno Mille furono traslate le sue reliquie) “[…] in cui c’è una camera con un letto per i religiosi poveri, sia la casa in cui si ospitano gli altri poveri, laici […]”. Tale istituzione (allora amministrata dal prete Nicola Terpililla), fondata in tempi precedenti forse dai monaci antoniani stessi, possedeva molte case nell’abitato, vigneti, oliveti, boschi e terreni seminativi. Inoltre, aveva in dotazione oggetti e suppellettili casalinghi vari. Dunque la venerazione di tale santo, tra i contadini, ha origini antiche ed era abbastanza praticato, e con il culto erano diffuse e tramandate anche le tradizioni di cui alcune giunte fino a noi. Ad esempio il porcello: a primavera un allevatore estratto a sorte, per onorare il Santo, lasciava in libera circolazione per l’abitato di Fresa un porchettino contraddistinto da un orecchio mozzato o da un campanellino. L’animaletto girandolone viveva a spese di tutti fino all’inverno quando, ormai cresciuto, veniva mattato e messo all’asta. Il ricavato era per la chiesa. La mattina del 17 gennaio i contadini portavano i loro animali sul sagrato per la benedizione sacerdotale oppure, nelle stalle, ritagliavano una croce sul pelo nel quarto posteriore dei quadrupedi mentre, nelle aie, accendevano fuochi a devozione. Ancora oggi, qualche persona viene colpita da una malattia virale a carico della cute (causata dal virus della varicella) detta il fuoco di Sant’Antonio o fiamme di Satana o anche herpes zoster. In paese vi sono ancora delle praticone che curano questo male con formule magiche. Mentre i frati antoniani di un tempo si erano specializzati usando come emolliente il grasso suino.
Veniamo ai canti. Siccome l’anacoreta egiziano è detto Santo universale perché il suo culto è diffusissimo nel mondo rurale, in quanto protettore degli animali domestici tanto necessari, ogni comunità ha adottato una propria versione del canto e tramandato le proprie tradizioni. Ad esempio:
– a Castelguidone “… benedèce r’anemièle, benedèce la pecherèlla, ru perchètt’e la hallenèlla…”;
– a Mafalda “… C’er na volt na moj e nu marìt, andavn a Rom a prend la senta fed…”;
– a Montefalcone “… Sant’antun di jennàr ha miss fuc a lu pagliàr…”;
– a Palena “… in onore del Gran Santo, ascoltate il nostro canto…”;
– a Petacciato “E mi disturba nel mangiare, e mi tormenta nel pregare, e mi si ficca sotto il letto, e non mi lascia riposar…”;
– a San Salvo “O l’elemosina all’eremita, dateci a noi soccorso e aiuto…”;
– a Torricella Peligna “Sand’Andoije tempe harrete, caminave pi lu monne…”;
– a Vasto “Sand’Andune binidatte, ‘nghi la mazz’e lu purcatte…” e così via.
Tali canti sono detti di questua perché intonati da gruppi in giro tra case e casolari ai quali venivano offerti generosamente alimenti e bevande. A Fresa esistono tuttora due tipologie di canti del sant’Antonio: uno soltanto beneagurante e postulante con strofe tipo “Sand’Andòni? a li diciassett?, ja cumbarùt? na givunètt?, quell? ere lu dimònie che tindàv’a Sand’Andòni?… benedìci gli alimàn? e ang’ a noi cristijàn?…”.
L’altro invece trae forse spunto dall’Historia Sancti Antoni di origine medievale composta in strofe da un anonimo giullare, diffusa in Abruzzo e pubblicata da Ernesto Monaci. Tuttavia tale Historia è differente dalla nostra sia nell’antefatto che nello svolgimento della narrazione, pure se con uguali significati e finalità morali: ad esempio, secondo la leggenda originale, i genitori del Santo avrebbero infranto il voto di castità nel corso del loro pellegrinaggio a San Giacomo di Compostela e, dunque, avrebbero procreato il Santo in stato peccaminoso. Dunque in quel canto nessuna donna incinta, né conca e fontana.
Oltre che da noi lo stesso canto è conosciuto a Pretoro, a Fara Filiorum Petri e in altri paesi della Maiella, come asserisce anche l’antropologo Francesco Stoppa dell’Università di Chieti il quale opina che tale canto figurato, che egli definisce lungo, non è tanto antico né di origine popolare ma riconducibile alla fantasia di preti e frati. La vicenda, a sua volta, qui viene presentata in due varianti. La prima, dal titolo C’era na donna bbon cristijàn?, è soltanto con figuranti in costume che cantano in coro, accompagnati con l’organetto diatonico e altri strumenti come moderni cantastorie ed è un canto itinerante di questua, non nelle case singole ma nelle piazzette e rioni. Il gruppo fresano de “I cantori del borgo” lo cantarono in più edizioni della Rassegna interregionale dei canti di Sand’Andonie a San Salvo nei primi anni 2000.
L’altra versione segue un copione, con personaggi, dialoghi, scenografia e canti: una vera rappresentazione teatrale che coinvolge ed entusiasma.
La narrazione, in succinto: una donna con il pancione va di sera alla fontana per attingere; la conca di rame è pesante ed ella non riesce a porsela sul capo; non passa alcuno, chiama i santi ma nessuno accorre; si fa scuro e la poverina, impaurita, invoca il demonio il quale si presenta. La aiuta ma in cambio del nascituro. Torna a casa e tempo dopo dà alla luce un bambino, Antonio, il quale crescendo va a scuola e dimostra una straordinaria capacità di apprendimento. Nel tornare a casa il bambino incontra un signore che gli dice di ricordare a sua madre la promessa fatta; lo scolaro riferisce, la madre piange e gli rivela il fatto. Il figlioletto rassicura la mamma dicendo di non aver paura del demonio e di voler farsi monaco eremita. Diventato giovane costui si avvia per il deserto ma lungo la strada incontra dapprima una diavolessa che cerca invano di sedurlo e poi Satana stesso che lo prende con un uncino e se lo porta all’inferno. Qui Antonio pretende il posto di guardiano e il capo dei diavoli gli consegna le chiavi, un nodoso bastone e gli raccomanda di mantenere l’ordine, di lasciare entrare tutti e di non far uscire nessuno. A sera i cioci, cioè i diavoli subalterni, raccontano le loro scorribande con braverie e malefatte compiute in giornata sperando in una ricompensa. Antonio invece li percuote duramente e, a lungo andare, i diavoli concertano di cacciare quel singolare portolano. E così fanno.
Lungo la via Antonio incontra Gesù, attorniato da angeli, che gli dona la Croce e lo nomina Santo e porta con sé in paradiso. Prima della dipartita Antonio benedice tutti gli astanti.
Il canto mafaldese somiglia un po’ al nostro tranne che all’inizio.
Nel corso del mese da noi si effettuano ancora altri canti di questua: la Pasquetta il 5 gennaio, prerogativa degli artigiani, e il San Sebastiano (invocato contro le febbri, le malattie polmonari e un tempo contro la peste) la sera del 19 gennaio. Solo che non si va più porta a porta ma in casa di amici per passarvi qualche ora a mangiare, bere e cantare.
Questo impalpabile morbo che continua a insinuarsi tra noi e, anzi, rinfocola, rinforza e rinnova, mette impietosamente a nudo la nostra fragilità e impedisce la normalità. Ne consegue che le manifestazioni di questo gennaio non avranno luogo.
Pierino Giangiacomo
I testi consultati:
Meaolo Gaetano – I vescovi di Chieti e i loro tempi – Vasto 1996.
Di Paolo Emilio – Canti popolari della Vallata del Trigno – Vasto 2012
Calvitti Nicolino – Mafalda, il Tempo, i Testimoni la Memoria – Vasto 2004
Primiano Angelomaria – La civiltà rurale di Montefalcone del Sannio – Vasto 2003
Anonimo – Rassegna interregionale dei canti di ‘Sand’Andonie’ – San Salvo 1987
Giancristofaro Emiliano – Totemàjje, viaggio nella cultura popolare abruzzese, Lanciano, 1978. Egli riporta il testo, pressochè uguale al nostro, citando il ricercatore OFM padre Donatangelo Lupinetti che ne fece oggetto di studio già dal 1950.
Tutte le foto si riferiscono a edizioni passate della tradizionale rievocazione.