È documentato che dall’ultimo ventennio del 1800, quasi ininterrottamente, partirono migliaia di poveri cristi da tutti i centri della valle del Trigno e del Vastese per gli Stati di Buenos Aires e di New York, come allora si chiamavano. Un doloroso distacco, uno smembramento di famiglie, una estirpazione etnica, un dramma talvolta finito in tragedia tra le onde dell’oceano.
Il 25 ottobre 1927 il piroscafo Principessa Mafalda, salpato da Genova e diretto a Buenos Aires, affondò in Atlantico con 303 vittime tra cui il fresano Giuseppe Farina. Nel nostro museo sono elencati centinaia di concittadini di cui ben 684 negli USA; e sono soltanto quelli registrati. Altre centinaia raggiunsero l’Argentina, il Brasile, e poi altre parti del mondo. Si imbarcavano, anche di nascosto con ovvie complicità, a Napoli, Genova, Marsiglia in Provenza, a Cherbourg nonchè Le Havre in Normandia, a Antwerp in Belgio. Non si conoscono i tempi, i modi e i disagi per raggiungere quei porti. Eppure lo hanno fatto. Molti di essi sono scomparsi nel nulla. Ogni tanto qualche loro discendente si fa vivo e mi chiede notizie sulle proprie radici.
Per rendere omaggio, riabbracciare affettuosamente e ricordare coloro che un giorno partirono da questo paese sarebbe stato doveroso, opportuno e bello organizzare, magari in un giorno d’estate, una festa in loro onore. Un simpatico evento da chiamare casomai Giornata del ritorno: non soltanto festa per il rientro di persone per riaccoglierle fra noi, ringraziarle e farle sentire importanti, ma anche di ritorno all’antico con un qualcosa di nostro e solamente nostro per ritrovare un po’ la nostra identità perduta. Dico “sarebbe stato” perché ormai di chi partì un giorno ne sono rimasti ben pochi giacchè anche loro assoggettati alla inesorabilità del tempo e alla fatal quïete. Qualche serata commemorativa in qualche modo in effetti ci fu, con la banale esibizione di un’orchestrina e di un cantante, non certo come doveva farsi.
Una delle occasioni mancate e uno dei tanti treni perduti da questo paese. Comunque, recentemente, è stato eretto un monumento e intitolata una via all’Emigrante. Almeno questo.
Per chiarire un po’ l’argomento, riporto la vicissitudine di un emigrante illegale, ancora vivente, quando i clandestini eravamo noi: una delle tantissime piccole storie drammatiche di persone comuni che si rassomigliano un po’ tutte ma che la grande storia snobba, tralascia e dimentica considerandole trascurabili. Una vicenda che richiama alla mente quella portata sul grande schermo con Raf Vallone nel 1950 da Pietro Germi con il titolo Il cammino della speranza.
L’ormai novantenne mi ha raccontato:
“Qualche anno dopo la fine dell’ultima guerra i giovani fresani partivano a frotte per l’estero, chi per l’America, chi per l’Australia, chi per la Francia, il Belgio o le grandi città di Roma e Milano. Qui non c’era lavoro ed eravamo in tanti. Ogni casa del paese o della campagna era abitata spesso da più persone. Si tirava a campare con poveri alimenti e tante difficoltà.
Avevo ricevuto una lettera da un mio parente con la quale mi dava istruzioni su come andare in Francia evitando Ventimiglia. Unitamente ai due miei compagni Pasquale D’Alfonso e Pasquale Pietroniro (il 5 aprile 1948, nda) ci recammo a Chieti al seguito del gruppo di lavoratori fresani con regolare contratto di lavoro per la rituale visita medica. L’idea era che ci saremmo uniti agli eventuali ritenuti non idonei per espatriare da clandestini. Furono, invece, accettati tutti e fatti immediatamente partire. Eravamo rimasti noi tre e decidemmo di tentare da soli l’avventura. Alla biglietteria della stazione chiedemmo tre biglietti di terza classe, solo andata, per Torino. Ci fu chiesto per quale Torino cioè Torino di Sangro o di Savoia. Non sapemmo rispondere. E chi aveva viaggiato così a lungo e meno che mai su un treno? Tutt’al più eravamo andati a piedi alla Madonna (a Nuova Cliternia, nda) o alle fiere nei paesi vicini. Rispondemmo di voler andare in Francia. E così partimmo su quei vagoni neri con i sedili di legno tirati da una locomotiva sbuffante un denso fumo. Arrivammo a Torino la mattina dopo. L’impatto con quel frastuono di altoparlanti, quei fischi di sirena e quella confusione di gente ci faceva sentire ancora più piccoli dei nostri diciott’anni. Ce ne stemmo in disparte, ma soltanto per un po’. Ad un signore con le valigie chiedemmo del treno per Bardonecchia (non osavamo dire Francia) il quale gentilmente ci indicò. Salimmo e quel treno partì. Dopo una diecina di minuti eccoti la polizia: – Documenti, prego. Mostrammo le nostre carte di identità. – Come mai da Fresagrandinaria su questo treno, dove andate? – A Bardonecchia. – A che fare? – Siamo turisti e andiamo a trovare un amico. – Eh sì, un amico, andate, andate e vedrete.
Dopo un po’ si avvicinò un tizio il quale con fare circospetto e sottovoce ci disse di essere una guida per attraversare il confine sulle montagne. Non ci fidavamo. Allora, come referenza, ci mostrò un tale seduto più in là dicendo essere un clandestino come noi. Insistette fino a convincerci e alla stazione di Chiomonte scendemmo appresso a lui. Ci portò a casa sua. Poi ci spiegò che essendo il nostro gruppo di sole quattro unità non valeva l’impresa per cui sarebbe tornato a Torino per intercettarne altre.
Aspettammo mentre la moglie ci offriva polenta. Il giorno dopo la guida tornò con sette calabresi. Ci si avviò verso gli alti monti e a sera raggiungemmo una grotta dove cenammo con pane di casa, formaggio di capra, un po’ di salame e del vino portato dal paese. Dormimmo sulle foglie di castagno. All’alba arrivò un tale con giacca a vento, binocolo a tracolla e due borracce ai fianchi. La prima guida se ne ritornò mentre l’altra ci invitò a seguirla. Ore ed ore di cammino. Quella scarpinata non finiva mai. Ma dov’è la Francia? C’era il sole e sul capo annodammo il fazzoletto. Avevo una cassettina di legno come valigia costruita dal compaesano Guido Carusi per compenso di una giornata a zappare la vigna. Si era rotta la manichetta assieme alla serratura e per tenerla chiusa avevo usato la cinghia dei pantaloni. Ogni tanto si faceva sosta, la guida guardava lontano col binocolo e poi ci offriva una bevutina di grappa.
In cima alla montagna trovammo la neve e lungo il sentiero una donna morta coi ghiaccioli nei capelli, forse rimasta indietro nella giornata precedente e abbandonata. Proseguimmo oltre, in quei lunghi saliscendi tra rocce intervallate da abetaie e pinete silvestri. Ad un certo punto la guida ci indicò la strada ancora da fare per evitare la polizia di frontiera. Volle essere pagata: duemila lire a testa, il corrispettivo di una settimana di lavoro. Andammo oltre da soli e dopo tanto altro camminare, alla sera, arrivammo nel villaggio di Bramans nei pressi di Modane in Savoia: eravamo giunti finalmente in Francia. Attraversammo la piazzetta con il rumore delle nostre scarpe chiodate sul selciato ed entrammo in una osteria. C’era un veneto che ci ragguagliò. Nel villaggio non c’era la polizia ma neanche lavoro. Si offrì di accompagnarci la mattina dopo a Aussois, un paese più in alto dove si stava costruendo una diga. Il giorno appresso fummo intercettati dalla gendarmeria la quale ci chiese se avessimo l’intenzione di lavorare oppure no. Risposta ovvia. Venimmo assunti come manovali e in poco tempo regolarizzati. Guadagnammo i primi franchi e imparammo le prime parole per farci capire. Era un altro mondo. Come erano buoni quel pane fresco e quelle tavolette di cioccolato! Rimanemmo fino a settembre quando nevicò. Rivalicammo le Alpi, prendemmo il treno e fummo a Fresa. Ripartimmo in primavera e con l’ottenimento del passaporto potemmo muoverci più liberamente e sicuri. In seguito cercai lavori più rimunerativi: tre anni in una miniera di carbone a Sillenoble nella Francia del nord e alcuni anni in Canada. Sono rimpatriato, ho comprato casa, nel 1953 mi sono sposato ed ho dei figli. Ora sono in pensione ma non potrò mai dimenticare quei lontani giorni perché mi sono cari…”.
Pierino Giangiacomo