Riceviamo da Chiara Savini, studentessa del liceo classico Pantini-Pudente di Vasto, una significativa riflessione sui giorni che stiamo vivendo.
Mi piacciono gli animali. Penso sia una caratteristica ereditata dai miei genitori, un tratto che abbiamo tutti in famiglia. Da bambina, la maggior parte di essi, mi spaventava, ma amavo comunque guardarli, magari a debita distanza. Mi incuriosiva il loro modo di fare, di muoversi, i loro versi e spesso mi ritrovavo a fissarli con gli occhioni spalancati. Ma più di tutto, sotto la frangetta, mi facevo venire il mal di testa per capire come facessero ad andare in letargo. Dormire per mesi, tutti arrotolati su se stessi, per poi svegliarsi in un mondo completamente diverso. Lasciavano alberi spogli e nuvole grigie, per poi trovare, al loro risveglio, frutti succosi e cieli limpidi, blu. Mi preoccupavo per loro, per come tutti questi cambiamenti potessero spaventarli. Mi chiedevo se ogni anno fosse sempre brutto come la prima volta o se col tempo si abituassero.
E a 10 anni, col naso appiccicato al vetro della finestra, mentre guardavo due rondini punzecchiarsi a vicenda e governare l’orizzonte dall’alto dei cavi della luce, di certo non aspettavo di poter vivere una tale esperienza. Sono andata in letargo. Tutti lo abbiamo fatto. Per mesi, chiusi e rannicchiati attorno ad un cuscino, senza uscire se non per il cibo, ci siamo addormentati con i brividi di freddo ed ora ci svegliamo velati di sudore. Una realtà diversa da quella che abbiamo lasciato a darci il buongiorno.
E la stessa paura dei piccoli cuccioli ci soffia sulla nuca. Ma non c’è solo quella. Dalla quarantena siamo usciti diversi, ingioiellati di emozioni. E mentre mi stropiccio gli occhi, l’anello di entusiasmo scivolato sull’anulare destro mi graffia lo zigomo. Ma non ho il tempo di preoccuparmi per questo, perché sento la luce del sole accarezzarmi i piedi e abbronzarmi di felicità. Sbatto le palpebre e i volti pallidi dei miei amici mi appaiono davanti. Porto i capelli dietro l’orecchio e la perlina dell’orecchino mi sussurra il ricordo del mio ristorante preferito. Mi alzo e mi guardo allo specchio e intorno al mio collo, ogni ciondolo della collana che quasi mi strozza mi riporta a momenti della mia realtà passata. Tra la pietra rosa del mio concerto preferito e il rubino dell’ultimo falò che ho visto bruciare, si fa spazio la gemma dei pomeriggi trascorsi al mare, col succo del ghiacciolo che cola dal mento e la sabbia tra le dita dei piedi.
Porto la mano a toccarla ed è come se mi teletrasportassi a quegli attimi. La salsedine a baciarmi la pelle, il sole schiarirmi i capelli. Lo sguardo puntato sulle onde lontane, le dita che fremono dalla voglia di affondare in quei granelli, che tanto ho odiato prima, ma che ora rimpiango. Faccio per prendere la rincorsa, gettarmi in quell’acqua, perdermi nell’azzurro come un aereo nel cielo. Ma all’improvviso, il campanello appeso alla cavigliera mi riporta alla realtà. La spiaggia scompare, di fronte a me, solo il riflesso del mio volto confuso. Mi guardo i piedi e, piccolina, proprio su quella campanella, incisa in un corsivo elegante, scorgo una parola: Prudenza.
Siamo liberi, ma questo non vuol dire essere sciocchi e disattenti. Siamo svegli dal nostro letargo, ma questo non vuol dire che l’inverno sia finito.
Chiara Savini