Siamo a primavera e si avvicina il periodo in cui ricorre la festa di San Nicola di Mira a Bari; in quest’anno particolare chissà se, come e quando l’evento avverrà. Viviamo tutti nell’incertezza. Intanto, proviamo a ripercorrere un po’ del nostro passato.
Da tempo immemorabile e fino agli anni ’20 del Novecento una “compagnia” di fresani andava annualmente in pellegrinaggio a San Nicola a Bari. In quasi tutti i piccoli e grandi centri frentani, vi era (e, in alcuni casi, vi è tuttora) il culto per tale Santo. A testimonianza del tempo che fu, viene conservata ed esposta una antica, bella statua lignea policromata, forse del XVII o XVIII secolo, nella chiesa parrocchiale di Fresagrandinaria.
San Nicola è stato sempre ritenuto anche il protettore dei bambini: ai piedi del simulacro v’erano appunto tre putti lignei dentro un mastello ma qualche decennio fa sono stati rubati.
Alcune ninnenanne invocanti il Santo erano cantate dalle nonne e mamme per conciliare il sonno ai piccoli. Dunque, dalla chiesa si partiva il primo maggio per tornare dodici o tredici giorni dopo. Il tragitto era da fare a piedi e si svolgeva a tappe, a volte sette altre otto, a seconda dei capricci del tempo, su strade non sempre lastricate e, quindi, fangose o polverose, ma comunque inerbate lungo i tratturi del basso Molise e del Foggiano settentrionale, unendosi alle altre numerose comitive dirette alla festa della traslazione delle reliquie del Santo nei giorni 7, 8 e 9. È documentato che gruppi di devoti partivano da quasi tutti i centri del Vastese e da Vasto stesso.
Nel libro di Gerardo Cioffari (o.p.) – Pellegrini a San Nicola di Bari nella storia, Centro Studi Nicolaiani, Bari 2007 – sono elencati i vari paesi, nel 1927 e 1938, da cui partirono le compagnie per recarsi alla basilica, con rispettivi capigruppo.
Ad esempio, anno 1927: Fresagrandinaria con il priore Michele D’Onofrio, Furci guidata da Damiani Giuseppe, Mafalda da Trivelli Guglielmo, Montenero da Tracchia Domenico, Palmoli da D’Ottavio Michele, Pollutri da Gizzarelli Vincenzo, Roccavivara da Gianico Giuseppe, Scerni da Di Candido Emidio, Tavenna da Maddalena Antonio, Tufillo da Barisano Francesco, Vasto da Santoro Vincenzo, e così via. Nel 1938 Vasto partecipò con due compagnie una guidata da Del Borrello Giovanni fu Michele e l’altra da D’Adamo Antonio fu Giuseppe. In quella occasione parteciparono anche Cupello con Salvatore De Martino e Casalbordino con Nicola D’Ortona.
Nel 1927 partecipò anche la mia nonna paterna, allora cinquantatreenne, la quale mi raccontava di essere passata in un paese chiamato San Giuvannìll di ritorn (San Giovanni Rotondo).
L’andare era pericoloso per le bande di malavitosi e nel guado dei corsi d’acqua. Come sostegno e arma di difesa si portava il bastone pannocchiuto chiamato in dialetto saiok; ai piedi robuste scarpe di vacchetta adatte per il lungo cammino, un cappello; le donne portavano anche un paio di pianelle consistenti in calze corte di lana e dal fondo imbottito di più strati di panno pesante: un parapioggia per il sole e le intemperie, un po’ di biancheria di ricambio, una leggera coperta di lana color rosso e nero tessuta a riquadri in casa, per la notte.
Le provviste alimentari consistevano in pizza ascì (pane azzimo), pane di frumento normale, olio, sale, taralli alle uova fatti in casa, uova sode, fave semilessate, qualche pezzo di salame e di lardo salato, cacio di capra stagionato e un po’ di vino portato in fiaschi ricavati da zucche a collo lungo. Il tutto portato in sacche di tela o in bisacce a tracolla.
Lungo il percorso i viaggiatori avevano la possibilità, ma non sempre, di poter usufruire, a pagamento, di una minestra calda e di cure per gli eventuali infortunati. Si camminava dall’alba al tramonto e di notte si dormiva dentro o nei pressi delle chiese o sotto il porticato di palazzi in luoghi noti e ritenuti sicuri. Si percorrevano 30/40 chilometri al giorno seguendo un itinerario attraversante il Gargano e un tratto della costa pugliese in modo che si potessero visitare più santuari: S. Maria di Stignano, San Matteo, San Michele, Santa Maria di Siponto, Santo Spirito.
Arrivati alla meta, stanchi e impolverati, ci si immergeva in una massa di genti provenienti da ogni dove diversamente vestiti e dall’accento sconosciuto. Con devozione si scendeva nella cripta, si cantava e si pregava presso la tomba del Santo, ciascuno chiedendone l’intercessione per l’ottenimento di particolari grazie per sé o per le persone care. Si partecipava alle funzioni e ci si comunicava.
I frati custodi del santuario offrivano ai pellegrini il pranzo consistente in “un piatto di maccheroni con sugo di pesce, un secondo piatto con due pezzi di pesce in umido, due uova cotte, un quarto di litro, un pane a tarallo e frutta” (op. cit.) come esplicitato nell’apposito regolamento dell’ospizio.
Dopo la 1ª Guerra Mondiale, venne offerto soltanto il pane sotto forma di tarallo secco e duro come tuttora avviene. Si dormiva all’addiaccio o, quando il tempo era inclemente, in camerate private della città vecchia su giacigli improvvisati, per pochi spiccioli. Ogni compagnia era guidata da un priore, vale a dire di un paesano laico serio e carismatico, il quale ben conosceva le strade e i posti. Dell’800 si ricorda un certo Telesfero Ottaviano e, successivamente, tal Nicola Toro.
Il santo viaggio rappresentava un’avventura che rimaneva a lungo impressa nella memoria anche se con contorni sempre più sfumati. Era un evento straordinario da raccontare per tutta la vita facendo fantasticare gli ascoltatori. Da Bari si riportava il classico santino, il pane benedetto e l’ampollina con la manna trasudata dalle ossa del Santo per mostrarla e appenderla a una parete di cucina come scacciaguai; per i bambini si acquistava l’ocarina e lu ‘ndrattì chiappàt’ a lu file (forse una specie di yo-yo).
Questo plurisecolare pellegrinaggio a piedi, un tempo assai praticato ed ormai scomparso qui da noi, viene ancora effettuato, anche se con modalità diverse – parte a piedi e parte con l’auto – dai vastesi, salvanesi e da qualche altro popolo. Qualche anno fa, mi sono trovato in un corteo di salvanesi e cupellesi di Montalfano arrivati con più autobus che mi hanno coinvolto affidandomi il compito, come ad un cireneo, di recare sulle spalle uno dei grossi e pesanti cesti ricolmi di cibarie in grande quantità generosamente offerte; e ricordo pure che l’allora sindaco di Bari Michele Emiliano venne a ringraziare personalmente. Come ebbi modo di assistere alla messa celebrata con rito ortodosso nell’attigua chiesa di San Gregorio Armeno, dove rimasi colpito da quella partecipazione corale, all’impiedi e composti: le donne tutte col fazzoletto in testa, tutti a rispondere, ognuno a cantare e poi la comunione col pane e vino. Ricordo pure che alla fine del rito distribuirono ai fedeli un loro piatto tipico: un pasticcio di carne avvolto in una foglia di cavolo. Fu per me una bella esperienza. E pensai che nella vita non si finisce mai di imparare.
Di questo antico andare sono stati a noi tramandati due canti popolari i cui testi e melodia sono ancora vivi nella memoria di chi li ascoltava dai genitori o nonni: il Miracolo del grano e La storia dell’uomo ostinato.
Op. cit.: stralcio dal mio libro Paese natìo, Vasto 2010.
Pierino Giangiacomo