In questi tempi assistiamo pressoché impotenti all’imperversare del coronavirus un morbo che ha invaso ormai il mondo intero e che ha causato moltissimi morti.
Noi residenti abituali siamo diligenti e sappiamo vivere anche in quarantena. Però ci mancano, eccome, gli spazi aperti tra queste colline ricche di verde e di vita!
Nel passato le pestilenze ricorrevano spesso, quasi ogni anno, sul popolo indifeso. Senza tornare tanto indietro nel tempo si vuole ricordare il vaiolo dell’inverno 1787 che si portò via una diecina di bambini. “Altre influenze” le si ebbero nel 1817 (tifo petecchiale), 1829, 1830, 1831, 1837, 1867 come leggiamo in una cronaca anonima, ma da attribuire allo scernese don Luigi Ciccarone allora arciprete di Fresagrandinaria: “… dalla mia adolescenza sentiva parlare del morbo asiatico del colera, e ne concepii grande spavento, ed il timore era grande e generale perché nel 1836 poche vittime furono nella mia patria, ma grane e generale era lo spavento. Intanto nel 1855 al 28 ottobre tornò il colera e durò fino al 21 dicembre e ne diede di vittime oltre a 40. Al 1866 tornò di nuovo il colera in Scerni e Vasto e San Salvo, e qualche altro Comune e nel mio paese pure morirono una cinquantina. Nel 1867 fu quasi una malattia generale perché quasi tutto il distretto di Vasto con Vasto istesso fu attaccato e ne morirono molti. Se la sa Paglieta, Guilmi, Casalbordino, Pollutri, Torino, Villalfonsina, Cupello, Gissi, Fresagrandinaria, Lentella ed altri Comuni… Vari i sintomi: occhi incavati, senso di affaticamento con infiammazione al volto, tosse, dolore allo stomaco, diarrea e febbre…”.
[ant_dx]Altre “influenze epidemiche” si verificarono nel 1886, 1915 (tifo) e soprattutto nell’autunno 1918 che fu chiamata “la spagnola” e fu messo in funzione, come luogo di quarantena, il casolare Giangiacomo sulla via di Pianezza per i soldati che tornavano dal fronte. In tre mesi morirono 70 fresani. Come oggi non c’erano messe né masse popolari nei funerali, ma soltanto portatori malfermi di quattro assi con i poveri resti, senza prete per la strada deserta del Camposanto.
Le comunità rurali di allora non avevano assistenza sanitaria né disponevano di vaccinazioni, di mascherine, di tamponi, di respiratori. Come antidoti usavano la quarantena (quand’era possibile), i pannicelli caldi come pure il bruciare i vestiti dei morti e lo zolfo nelle camere come disinfettante. Per abbassare le temperature degli ammalati di tifo usavano il ghiaccio. Su un versante scosceso a nord del monte Calvario (adiacente all’attuale caserma dei carabinieri) avevano realizzato una cosiddetta neviera: era un enorme pozzo con il diametro e la profondità di una diecina di metri e con le pareti a muro di pietre squadrate (l’immobile è esistito fino agli anni ’70 del ‘900 quando spianarono la zona). La sua funzione era quella di far da deposito della neve invernale: la si ammassava a strati alternati a paglia. D’estate si prelevava il ghiaccio occorrente tramite una porticina esistente a valle. Un tempo le neviere esistevano quasi in ogni villaggio.
La gente di allora considerava ineluttabili i nefasti eventi, ma si sapeva adattare ad ogni circostanza.
In conclusione: il cammino dell’umanità è sempre stato irto di problemi e intoppi vari ma sono stati sempre superati: supereremo anche il coronavirus e tornerà il sereno.
Pierino Giangiacomo