Lancianese di nascita, ma americana d’adozione. A New York da un decennio, Isabella Abbonizio musicista ed insegnante di musica, ci ha raccontato com’è la situazione in America con gli occhi di una italiana nella Grande Mela. Ci ha raccontato della paura per un contagio che, in una città come New York si espande senza controllo, della successiva fuga con la famiglia verso un luogo più tranquillo e dell‘impotenza di fronte all’iniziale resistenza statunitense per ciò che stava accandendo qui da noi.
Ecco la sua testimonianza.
L’essere emigrati in un paese straniero provoca un costante senso di incertezza sulla effettiva validità della scelta, alla fine dei conti. La distanza fisica e temporale (fuso orario) dai propri cari e dai luoghi dell’età giovanile si percepisce come uno spettro sempre dietro l’angolo che si avvicina sempre di più man mano che gli anni passano.
Dopo dieci anni di vita all’estero si inizia a prendere atto di quanto ci si sia abituati ad una cultura che non è la propria, ai forti contrasti sociali e culturali, ai pasti veloci, all’equazione tempo-denaro, al dinamismo folle della Grande Mela. L’esplosione del virus pandemico in Italia, dopo la Cina, sembrava fosse totalmente distante e irrilevante per gli americani, a loro non sarebbe mai potuto accadere, il potere economico li rendeva immuni e ciechi di fronte al contagio. Per noi italiani emigrati in America era, invece, vissuto come un terribile dramma, intensificato dall’impotenza di essere inascoltati nel grido di allerta a frenare in tempo l’inesorabile estensione a macchia d’olio del virus.
A partire dall’inizio della seconda settimana di marzo, la velocità della diffusione del covid-19 sembrava già aver raggiunto quella della normale vita quotidiana newyorkese per presto superarla in maniera esponenziale ed incontrollabile. Con cadenza sempre più ravvicinata, i canali d’informazione veicolavano notizie sempre più preoccupanti, da un lato sulla totale impreparazione del sistema sanitario, con la mancanza di controlli sul movimento di persone provenienti da zone infette e dei famigerati test, dall’altro di nuovi contagi e chiusure repentine di scuole e Università. Le istituzioni private, a partire dalle più prestigiose (New York University, [mar_dx] Columbia University, Juilliard School), sono state le prime a dare segni di allarme e a serrare le porte dei loro edifici.
Nonostante tutto, gli americani continuavano a provare una certa indifferenza nei confronti del pericolo di contagio capillare, sostenuti dagli ignavi comunicati del Presidente. Il mio allarmismo iniziale e la comunicazione della mia sottrazione precauzionale ad eventi pubblici di lavoro è stata vista di primo acchito con un certo scetticismo temperato da compassione mossa dalla consapevolezza di un condiviso nazionalismo, molte volte mi sono sentita rispondere “you’re Italian and maybe you fear for your country, but it’s really more the panic than the pandemic”.
Durante la seconda settimana di marzo, mi sono recata quotidianamente nella scuola dei miei figli chiedendo quando sarebbe stata chiusa per l’emergenza virus, ma mi sono sentita rispondere ripetutamente che, per quanto comunicato dal Dipartimento dell’Educazione fino a quel momento, le scuole pubbliche non sarebbero mai state chiuse ma, nel caso si fosse verificato un caso di contagio le avrebbero chiuse per 24 ore, disinfettate e riaperte. Esterrefatta e incredula ogni giorno di più dalla medesima risposta, il venerdì ho deciso di non portare più i miei figli a scuola. Lo stesso giorno con la mia famiglia siamo letteralmente scappati dalla città e ci siamo rifugiati in montagna in una casa affittata all’ultimo minuto, saremo qui per due mesi o finché l’emergenza virus sarà finita.
La città ci spaventa, o meglio, ci terrorizza. Abbiamo sentito di scene di panico generalizzato, di untori di trasporti pubblici, di aggressioni agli asiatici, di folle resse ai supermercati. Il secondo weekend del mese è stato denso di notizie e il pomeriggio di domenica 15 marzo, il sindaco De Blasio ha comunicato che le scuole pubbliche avrebbero chiuso il lunedì, finalmente! Tutte le aziende il cui settore lo permetteva hanno spostato il lavoro online, le altre hanno chiuso. Nel giro di un fine settimana ci siamo trovati nella stessa situazione degli italiani, ad eccezione della clausura in casa. Dopo una settimana siamo in clausura anche noi, con l’ordine esecutivo NY State on pause del Governatore Cuomo a partire da domenica 22.
Le notizie di questi ultimi giorni sembrano più promettenti per la disponibilità di test e la mobilitazione del sistema sanitario, con le blasonate navi destinate ad ospedali. La situazione ci spaventa e lascia esterrefatti, con il dubbio che una pandemia di queste dimensioni si sarebbe forse potuta evitare sulla base della pregressa situazione italiana e cinese. Ma l’economia avrebbe subito un arresto e nessuno l’avrebbe perdonato senza un’evidente giustificazione, si è voluti fuggire dal disastro economico aggravandolo fino ad un punto di non facile ritorno. Al momento attuale, il Governo sta cercando di chiedere il sostegno della ricerca scientifica stanziando un grosso capitale per l’uso delle ultime tecnologie al fine di trovare un rimedio al covid-19.
Si spera di ottenere dei risultati in breve tempo ma le notizie al momento sono ancora molto preoccupanti e i dati del contagio sono, come ci si sarebbe aspettati, fuori controllo: lunedì 23 marzo 12mila contagi solo a New York City.