“Abbiamo paura e non capiamo perché una fabbrica con migliaia di furgoni pronti, fermi, che non rappresentano una prima necessità deve continuare l’attività lavorativa invece di chiedere la cassa integrazione come proposto da Conte e sindacati”. Sono le parole che descrivono i timori delle famiglie dei lavoratori della Sevel di Atessa, ma che possono estendersi a tutto l’indotto in Val di Sangro.
L’azienda, come comunicato ieri, resterà ferma fino al 22 marzo (a esclusione di alcuni reparti). La sosta è stata causata dal blocco della Isringhausen che in Val di Sangro produce i sedili dei furgoni e non come estrema misura in ottica emergenza coronavirus sulla scorta delle richieste di sindacati e amministratori locali (ieri, 40 sindaci hanno chiesto la fermata totale di tutta la Val di Sangro), circostanza questa aspramente criticata dai sindacati che imputano il fermo al mancato approvvigionamento anche di altri componenti.
La preoccupazione, come detto, non è solo dei lavoratori, ma anche delle loro [ant_dx]famiglie che temono che il mancato fermo produttivo possa vanificare gli sforzi per ridurre al minimo la possibilità di contagio restando a casa. Il gruppo, d’altronde, ha già fermato gli impianti di Melfi, Pomigliano, Cassino, Mirafiori, Grugliasco e Modena lasciando per ora operativi quelli di Termoli e, appunto, Atessa.
Ieri, i sindacati hanno concordato con l’azienda che i dipendenti “che non erano in condizione di recarsi al lavoro sarebbero stati coperti dalla cassa integrazione. Oltre il 60% è rimasto a casa. Dove non è stato possibile questo percorso, sono stati dichiarati gli scioperi con un’alta adesione dei Lavoratori”.
“Riteniamo importante la presa di posizione dei sindaci e ricordiamo che, se esistono i presupposti, gli stessi, coinvolgendo la Regione, possono percorrere la strada della quarantena nei propri Comuni al fine di contribuire a limitare i movimenti e di conseguenza la diffusione di questo virus”.
Per ora, quindi, la fermata di qualche giorno non rasserena gli animi.