Il termine “open innovation” è stato coniato dall’economista statunitense Henry Chesbrough nel suo saggio Open Innovavation. Siamo nel 2003. Ergo, gli anni in cui l’innovazione digitale stava macinando sempre più consensi e facendo grossi progressi.
Per dirne una: siamo a un passo da Facebook. È infatti il 28 febbraio 2003 quando Mark Zuckemberg lancia la sua prima piattaforma online, progenitrice dell’odierno social Facebook: Facemash. C’era qualcosa che iniziava a scattare, mentalmente parlando, in tutti quanti. Un bisogno di connessione, probabilmente. E così, anche a livello aziendale, molte imprese hanno iniziato a capire che non bastavano più le vecchie regole, che il concetto di concorrenza era obsoleto e che, in definitiva, andavano cercate nuove metriche di dialogo per costruire una…rete.
Open innovation sta proprio a indicare un tipo di innovazione “aperta”, questo perché con l’innovazione digitale ci si è resi conto che se non si riusciva ad aprire collaborazioni con aziende che potevano dare una spinta a livello digitale, si restava indietro…nel migliore dei casi.
Ma come si fa concretamente open innovation? Potrebbe essere una domanda da un milione di euro, ma in realtà non lo è. Ormai diverse aziende scelgono di (r)innovarsi per garantirsi un posto stabile nel panorama delle top gamma. Per riportare un esempio, si può riportare il fortunato successo della P&G. Da quando l’azienda ha infatti iniziato a seguire un programma di open innovation, circa il 35% dei nuovi prodotti sono sviluppati inserendo concetti e idee provenienti dall’esterno. Con l’aumento di produttività dell’R&D del 60%.
Fondamentalmente, come ogni questione riguardante l’innovazione e le tecnologie, l’open innovation è in continua evoluzione. Oggi esistono diversi metodi per poter dire di partecipare ad un progetto di open innovation, domani probabilmente verrà inventato uno nuovo, quindi non si può essere assolutisti su questo argomento. Per ora, quelli attestati sono sicuramente: gli accordi tra aziende, acquisizione di piccole startup da parte di grandi corporation, partnership di varia natura con centri di ricerca, incubatori e università. Il guadagno è duplice. In primis, l’azienda guadagna a livello di agilità tecnologica, innovazione, nuove idee, nuove forze motrici. In secondo luogo, le startup o le istituzioni che collaborano riescono a essere inserite in un contesto professionale molto avanzato rispetto a quello di partenza che, appunto, le identifica come organismi imprenditoriali in una fase iniziale del loro percorso.
Invece, facendo un esempio con aziende sullo stesso piano, magari anche vagamente competitors in uno o più settori, cosa si può fare? Qualcosa che probabilmente è insito nell’uomo sin dagli albori della società: collaborazione, unire le forze per raggiungere insieme un obiettivo soddisfacente per entrambe le parti. Questo approccio potrà sembrare forse complesso, ma se lo si guarda dalla giusta prospettiva non è altro che una presa di accordi come un’altra per ottenere qualcosa in funzione di altro. In natura, questo avviene ogni giorno.
Il fenomeno scientifico per cui gli alberi che si trovano vicini riescono a non sfiorarsi con le fronde, si chiama crown shyness, “timidezza delle chiome” tradotto. Sciogliendo i nodi filosofici che si possono vedere dietro questo comportamento dalla funzionalità stupefacente, semplicemente tra le piante esiste un tacito accordo che sancisce dei confini ben specifici per arrivare ad un obiettivo comune: far filtrare abbastanza luce tra le fronde per permettere a tutte di fare la fotosintesi. Semplice, no?