Coltivare un’elevata quantità di marijuana non significa volerla spacciare. Lo ha stabilito la Corte d’Appello dell’Aquila, diminuendo la pena a M.A., un trentottenne di Vasto, dai 3 anni e 8 mesi di reclusione comminati dal Tribunale di primo grado a 2 anni e 4 mesi.
I finanzieri, il 19 agosto del 2018, avevano perquisito la casa dell’uomo, trovando 40 chili di marijuana che, secondo gli investigatori, era stata coltivata su un terreno nelle vicinanze dell’abitazione. Oltre alla cannabis, i militari avevano scoperto anche una pistola semiautomatica, una carabina e migliaia di munizioni, nonché parti meccaniche di arma da fuoco.
Ieri la sentenza dei giudici del capoluogo che, accogliendo le osservazioni dell’avvocaro difensore, Gianni Menna, hanno rideterminato la pena, che così scende dagli iniziali 3 anni e 8 mesi agli attuali 2 anni e 4 mesi.
“La Corte – sottolinea il legale – ha accolto la tesi secondo cui la detenzione dello stupefacente, seppure oggetto di coltivazione, potesse essere, come in effetti è stato, ricondotta all’ipotesi meno grave della detenzione di lieve entità. È stata, inoltre, dimostrata la non diffusività dello stupefacente ottenuto dalla coltivazione. Sicuramente – commenta Menna – un’importante pronuncia, che si unisce alle precedenti, volta a chiarire l’esatta portata giuridica della fattispecie della detenzione di stupefacenti di lieve entità, nonostante la presenza di un dato ponderale considerevole qual è la detenzione di 40 chili di sostanza, dato che, tuttavia, ai fini del riconoscimento di tale forma attenuata di reato, deve valutarsi unitamente ad altri e diversi elementi, quali la detenzione di una sola tipologia di sostanza e non di diverse, chiaramente sintomatiche di una diversa attività di spaccio al dettaglio a carattere continuativo e professionale, nonché di altri elementi, anche di natura soggettiva”.
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