“Ogni edificio concluso significa restituire alla città un pezzetto di se stessa”. Cristina D’Agostino ha 34 anni ed è di Fossacesia. È un ingegnere che lavora nei cantieri in cui si sta ricostruendo L’Aquila. Nel decimo anniversario del terremoto, racconta quello che ha vissuto allora e lo stato attuale della ricostruzione.
Dove ti trovavi il 6 aprile 2009?
“Ero studentessa di Ingegneria Edile Architettura e vivevo a L’Aquila, ma il 6 aprile del 2009 mi trovavo all’estero perché stavo frequentando il mio anno di corso universitario in Spagna, con il programma Erasmus.
Nonostante stessi all’estero, ero in contatto con i miei amici ed ero al corrente delle numerose scosse che si stavano verificando sempre più frequentemente. Già dall’anno precedente si parlava della probabilità di un terremoto e negli ultimi tempi era comune parlarne, si era diffusa infatti l’idea che tante scosse, ma di poca entità, avrebbero forse evitato una scossa rovinosa”
Quando hai saputo della tragedia, qual è stata la tua reazione?
“Ricordo nitidamente la mattina di quel 6 aprile, intorno alle sei il mio coinquilino è venuto di corsa a svegliarmi con la notizia appena appresa dalla radiosveglia di un violento terremoto a L’Aquila. Le peggiori previsioni si erano avverate.
Non senza difficoltà di connessione telefonica, ho tentato immediatamente di mettermi in contatto con chi conoscevo per capire meglio l’entità della tragedia e trovarmi a tanti chilometri di distanza ha acuito il senso di dolore e di preoccupazione. Sono stati giorni vissuti in balia di un logorante senso di attesa, per avere notizie rassicuranti o terribili, una sensazione che strideva fortemente con la normalità e la quotidianità degli altri ragazzi universitari che passeggiavano spensierati per i corridoi dell’università. Da quel momento per me è scattato il conto alla rovescia, mi importava solo del giorno in cui avrei preso l’aereo per tornare in Italia.
In più, visti gli ingenti danni, la facoltà mi propose da subito di prorogare di un altro anno la permanenza all’esterno ma non ho esitato a rifiutare. La visione delle cose era ormai cambiata”.
Quando sei tornata a L’Aquila, quale scenario hai trovato?
A L’Aquila lo scenario era completamente surreale, era come entrare in un campo di battaglia dopo una guerra: militari armati ad ogni incrocio, strade bloccate, distruzione ovunque. Uno scenario difficile da immaginarsi, a cui mai una persona penserebbe di assistere nella propria vita. Nonostante tutto, presa dal mio impegno di completare gli studi, sono tornata in pianta stabile dal settembre, prima viaggiando poi riuscendo a prendere, con molta fortuna, uno dei pochi alloggi messi a disposizione per gli studenti all’interno di una struttura agibile. Ricominciare una quotidianità semi normale è stato difficile, a livello universitario c’erano grandi carenze, spostarsi era complicato, l’unico percorso che facevo era tra l’alloggio e la sede provvisoria dell’università, quasi sempre a piedi. Era tutto stravolto rispetto alla precedente vita universitaria, a partire dalle amicizie da ricostruire, perché la maggior parte di quelli che conoscevo avevano lasciato la città. Si è trattato di dover ricominciare da capo e per questo chi ha vissuto questa circostanza misura i suoi anni in “prima o dopo terremoto”, il 2009 viene definito l’anno zero“.
Tu sei ingegnere. Di cosa ti occupi nell’ambito della ricostruzione?
“Molto presto ho iniziato a collaborare per gli studi professionali impegnati nella ricostruzione. Se da una parte la tragedia era lì, tangibile in ogni momento, dall’altra si è presentata l’opportunità di inserirmi e crescere nel mio ambito lavorativo.
Sotto il profilo professionale, lavorare qui rappresenta un’esperienza ricchissima, seppur faticosa. E’ stato estremamente formativo immergermi, già da neo laureata, nei lavori su edifici storici, di valore, lavorando a tutti i livelli, dal progetto alla direzione in cantiere e interfacciandomi con tutte le figure coinvolte, dai privati ai funzionari pubblici e agli addetti ai lavori.
In questi anni ho potuto seguire con dedizione numerose demolizioni, ricostruzioni, riparazioni e ogni volta veder tornare alla vita un edificio mi regala emozione, perché, per quanto non si noti, la complessità che c’è dietro queste operazioni è elevata e c’è tanta pressione da tutti i fronti. Ogni edificio concluso significa restituire alla città un pezzetto di se stessa contribuendo alla ridefinizione di quei luoghi che, come spiega molto bene anche l’antropologo Vito Teti, sono permeati di storia e di trasformazioni, al centro dei legami e degli scambi tra persone, e nella loro unicità rappresentano uno stimolante punto di partenza per ricreare nuovi tessuti sociali”.
A che punto è la ricostruzione? È in ritardo?
“Già all’indomani del sisma, sono stati dati tanti numeri sulla ricostruzione, tutt’ora se ne danno tanti altri. Sono state create molte aspettative e previsioni, a volte tralasciando però le difficoltà con cui noi tecnici abbiamo dovuto poi fare i conti nel lavoro quotidiano.
Ritengo che occasioni perse ci siano state, programmazioni carenti o tardive anche, ma si consideri anche che l’estensione dei danni arrecati dal sisma è ampia, il numero delle persone impegnate nella ricostruzione altrettanto alto e creare una rete tra tutti i fattori in gioco che non produca strappi da nessun lato è utopico, data la varietà delle problematiche.
C’è ancora tanto da fare e addentrandosi in diverse zone del centro, per non parlare di tante frazioni, ci si rende facilmente conto di quanto ancora è necessario ripristinare.
In dieci anni il processo della ricostruzione ha attraversato varie fasi, a volte di accelerazione, a volte di rallentamento e sono state condotte tante battaglie per far sì che non si arrivasse mai ad uno stato di stallo, perché la volontà di tornare a vedere rifiorire la città e il suo intorno è fortemente radicata in chiunque”.
Di questo passo, secondo te, quanto tempo ci vorrà ancora per la completa rinascita della città?
“[mic_dx] Bisogna distinguere tra la riparazione degli edifici e tutto ciò che riguarda la ricostruzione del tessuto sociale ed economico, perché in questo ambito il tempo necessario per una vera rinascita è maggiore, in quanto si intrecciano dinamiche e aspetti ben più sottili afferenti la sfera umana.
Nel corso del tempo sono cambiati radicalmente gli equilibri e gli stili di vita, prima dovuto all’allontanamento immediato dalla città, ora dovuto a un processo lento di rientro. Solo a titolo di esempio, pensare di tornare a vivere in centro non è affatto una scelta semplice, mancano molti servizi e si respira costantemente la polvere dei cantieri in corso. Bisogna essere consapevoli che la riappropriazione della città e dei suoi spazi, con tutto quello che c’è dietro questo concetto, è un processo lento e graduale, che potrebbe richiedere anche più di una generazione prima di essere compiuta del tutto”.
Nel decimo anniversario, qual è il tuo pensiero per le vittime e per le loro famiglie?
“Il dolore di chi vive il dramma di aver subito delle perdite non si potrà mai eliminare ed è importante cercare di mantenere viva la memoria di chi non ce l’ha fatta. Da tecnico, ritengo che una vicissitudine come quella capitata a L’Aquila debba tenere alta l’attenzione, al fine di non ridurre la giornata del 6 aprile ad una ricorrenza annuale.
Mi auguro che rappresenti un sollecito a ricordare costantemente che viviamo in una terra ricchissima di bellezza ma estremamente fragile alla quale è necessario adattarsi e dove si può scongiurare il ripetersi di scenari simili solo attraverso la messa in atto di azioni di salvaguardia, di prevenzione e una buona pratica del costruire”.