Nel vortice della politica straripante di post e tweet a getto continuo per inseguire (e sfruttare) le reazioni dei social, anche il voto in Abruzzo assume, per la prima volta in mezzo secolo di storia delle Regioni, un valore nazionale.
È stato il primo test sul gradimento dei cittadini verso le due forze del Governo nazionale giallo-verde (o giallo-blu, come lo ha ribattezzato Salvini): la Lega e il Movimento 5 Stelle, che sono tornate a presentarsi su fronti opposti. Da un lato, la corsa, solitaria per scelta, dei Cinque Stelle; dall’altro la Lega, rientrata nel centrodestra (nonostante un’evidente freddezza tra Salvini e Berlusconi), da cui si era staccata dopo le elezioni politiche del 4 marzo per firmare il “contratto” su cui si fonda il Governo Conte. Lo stesso avverrà nelle altre cinque regioni in cui si voterà di qui alla fine del 2019: in ordine di tempo, Sardegna (24 febbraio), Calabria e Basilicata (26 maggio, in concomitanza con le europee), Piemonte ed Emilia Romagna (in autunno).
La scalata della Lega al Gran Sasso era iniziata lo scorso anno, passando da percentuali da prefisso telefonico al 13% ed espugnando il suo primo Comune, Silvi, con un rappresentante delle forze dell’ordine, Andrea Scordella, che, nella notte della vittoria, aveva ringraziato l’elettorato pentastellato per averlo scelto al ballottaggio contro il centrosinistra. Un asse che, per evidenti scelte politiche, si è spezzato alle regionali. Proprio a marzo dello scorso anno è iniziata la corsa a salire sul carro (o, meglio, sul Carroccio) dei vincitori. Nella convinzione di aver trovato l’ariete con cui sfondare i portoni dei palazzi della politica, molti esponenti locali di destra e centrodestra hanno sottoscritto la tessera col simbolo di Alberto da Giussano. Tant’è che a Pontida, al trentaduesimo raduno nazionale leghista, gli abruzzesi erano 300. E la truppa è andata via via ampliandosi.
Nella campagna elettorale invernale (la seconda in Abruzzo, le regionali post-Sanitopoli del 2008), i due azionisti di maggioranza del Governo giallo-verde, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, si sono sfidati a distanza. Due tour distinti e paralleli che hanno toccato le città e anche alcuni piccoli centri. Il vincitore è Salvini. Il ministro dell’Interno, per 10 volte in tour in Abruzzo nel giro di un mese, l’ha presa come una sfida personale. Nella domenica del voto, si è anche attirato le accuse del Pd di aver violato il silenzio elettorale, quando ha twittato: “Io ce l’ho messa tutta! Oggi tocca a voi: dalle 7 alle 23, bastano 5 minuti del vostro tempo: una croce sul simbolo LEGA e vinciamo!”.
La Lega, con oltre il 27%, traina verso la vittoria la coalizione e il neo presidente, Marco Marsilio, il senatore romano di famiglia abruzzese che Giorgia Meloni ha imposto al centrodestra non senza malumori iniziali all’interno della coalizione. A FdI, del resto, il patto a tre Salvini-Berlusconi-Meloni aveva assegnato il candidato governatore dell’Abruzzo. Sulla “parziale abruzzesità” di Marsilio si sono appuntate molte delle polemiche dei candidati del centrosinistra, l’ex vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, e del Movimento 5 Stelle, Sara Marcozzi. Argomentazioni insufficienti ad arginare due flussi che spingevano la corrente verso destra: il malcontento nei confronti del Governo regionale di centrosinistra e, soprattutto, il crescente consenso per la Lega e il suo leader, che ha saputo rendere nazionale una consultazione destinata a un milione e 200mila persone, di cui solo il 53% è andato alle urne. Elezioni giocate tutte sul corpo del “capitano”, come lo chiamano i leghisti, con la sua presenza costante, le sue divise della polizia e delle squadre di calcio.
Tra coloro che le elezioni le hanno perse, la parola “sconfitta” è stata praticamente bandita dalle dichiarazioni ufficiali.
Il centrosinistra perde la Regione, ma, paradossalmente, tira un sospiro di sollievo per non essere arrivato terzo, come preconizzavano i sondaggi, e vuole ripartire da una coalizione diversa, meno partitica e più civica. Un progetto ancora in fase embrionale, visto che diversi esponenti (o ex esponenti) di partito si sono presentati sotto i simboli delle civiche. La convinzione di dem e alleati è di aver abbandonato il fondo toccato 11 mesi fa, quando il centrosinistra si fermò in Abruzzo al 17% con il Pd al 13, al di sotto del 18% che il Partito democratico raccolse a livello nazionale. Ma rimane una magra consolazione.
Il Movimento 5 Stelle, dopo aver creduto in un testa a testa Marcozzi-Marsilio, deve accontentarsi del 20%, percentuale analoga a quella delle regionali 2014, ma quasi dimezzata rispetto al 39% delle politiche 2018. Anche tra i pentastellati il voto abruzzese diventa una questione nazionale e pone, in questi giorni, seri interrogativi sull’organizzazione interna del Movimento e sulla improduttività delle corse solitarie. Si fa strada l’ipotesi di abbandonare la lista unica per aprire ad alleanze con le liste civiche.
Dal responso delle urne, emerge un dato evidente. L’opinione degli elettori cambia in fretta: in massa a votare M5S nel 2018, Lega nel 2019. L’elettorato volatile, come lo chiama il professor Ilvo Diamanti. È così da quando, nel 2014, Renzi e il Pd vinsero le europee con quel 40% poi svanito in fretta: la vittoria di oggi, se non puntellata da risultati concreti e veloci, può trasformarsi nella sconfitta di domani.
Ora, con 10 consiglieri regionali, la Lega è di gran lunga l’azionista di maggioranza della Giunta Marsilio e ne condizionerà inevitabilmente le scelte, con il rischio di relegare al ruolo di comprimarie le altre forze politiche del centrodestra (3 consiglieri Forza Italia, 2 Fratelli d’Italia, 1 Azione Politica, 1 Udc). Se la tendenza al monocolore sia un bene o un male ce lo diranno soltanto i prossimi mesi. Problemi prioritari da affrontare: aumento della povertà, con 350mila abruzzesi che rischiano di scivolare sotto la soglia della sopravvivenza, e triste primato italiano (condiviso con la Basilicata) dell’emigrazione giovanile e dello spopolamento.