Ho perso il conto, non so più da quanti anni non partecipo ad un veglione di Capodanno. Non ricordo nemmeno quale sia stata l’ultima festa a cui ho preso parte per salutare l’anno che va via e dare il benvenuto all’anno che comincia. Da tempo immemore, infatti, il 31 dicembre me ne sto a casa mia, in compagnia del mio cane, lontana da veglioni, lustrini, spumante, petardi e, soprattutto, lontana dal temibile trenino al ritmo di “pe pe pepepepe” che parte una volta scoccata la mezzanotte.
Non si tratta di snobismo o di volere essere alternativa a tutti i costi: si tratta di sopravvivenza. La solitudine in mezzo alla gente, infatti, mi uccide e far finta di essere felice tra una fetta di cotechino, una cucchiaiata di lenticchie e un ballo di gruppo proprio non mi riesce.
Finché sei giovane sei “ricattato” dal bisogno di appartenenza al gruppo, ma invecchiando impari finalmente a non dover più indossare una maschera, a non dover più fingere a tutti i costi che ti stai divertendo.
Troppo facile dire: “Al rogo l’anno vecchio! L’anno nuovo sarà una figata pazzesca!”. Quel gran genio di Giacomo Leopardi, nel suo “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”, ha meravigliosamente descritto il concetto che la felicità non è legata a qualcosa di reale che stiamo vivendo o abbiamo già vissuto, ma solo all’attesa, alla speranza di ciò che ci immaginiamo e ci illudiamo possa accadere.
Il Capodanno condensa in sé proprio questo disperato bisogno umano di credere che le cose andranno meglio. Fin qui poco male, anzi bene, fa parte della nostra natura di esseri umani, ma io mi chiedo: perché tanto dimenarsi per un anno che finisce e uno che comincia? La speranza può indossare anche abiti più sobri, senza dover necessariamente far ricorso al trenino “pe pe pepepepe” che tanto piace a Barbara D’Urso.
Ciò che davvero dovremmo augurarci per l’anno che comincia sono silenzio ed interiorità per ascoltare noi stessi e il mondo che ci circonda, per sentire la vita, la sua fragilità e il suo immenso valore. Nella società della “connessione continua”, dove il primo e l’ultimo gesto della giornata che compiamo sono ormai accendere e spegnere il telefonino, però, silenzio ed interiorità non hanno diritto di cittadinanza e così si finisce per essere immensamente soli, depressi e “social” in mezzo alla gente.
Viviamo sui social, ma questo non vuol dire che siamo aperti agli altri, anzi viviamo sempre più relazioni superficiali, evanescenti ed effimere. Effimere come il trenino di Capodanno che, dopo tanto girare tra una stanza e l’altra, si scioglie e chi s’è visto s’è visto… appuntamento al prossimo trenino!
Nella società dell’efficientismo e della velocità, del tran tran e dello stress della vita quotidiana, del tutto e subito, possa il 2019 donarci “tempo”.
Tempo per fermarci a riflettere sull’immenso dono che è la vita, un dono fragile, complicato e impegnativo, ma bellissimo.
Tempo per dedicarci a coloro che amiamo, al mondo che ci circonda, alle attività che ci fanno stare bene e alla natura, che con tanto menefreghismo calpestiamo e violentiamo.
Tempo per coltivare la nostra interiorità e la nostra felicità, per leccarci le ferite (che purtroppo ci sono!) e per saperci rialzare dopo ogni caduta.
Tempo per assaporare le piccole cose, per comprendere che non sempre chi si ferma è perduto e chi ha tempo è un fallito.
Tempo per tornare a stupirci come i bambini e credere in un mondo migliore, più giusto e più umano.
Tempo per dare senso all’attimo e non rischiare di morire senza aver vissuto.
Andiamo a cominciare. Buon 2019!