Nomi d’arte: Silent Beat e Cemento Armato. Sono due ragazzi con la passione del rap. Hanno vent’anni Davide Alfini, di Pollutri, e Mattia Panessa, di Cupello. “Siamo stati compagni di scuola all’Istituto Mattei. Al secondo anno, abbiamo scoperto di avere in comune la passione per il rap”, racconta Davide.
Insieme hanno composto quella che si può definire la trilogia della timidezza. Il rap come mezzo per vincere l’insicurezza e per scagliarsi contro “il sistema italiano delle raccomandazioni”. A distanza di appena sei mesi dalla prima canzone, già le prime soddisfazioni.
Mattia e Davide, com’è cominciata questa vostra collaborazione?
Mattia: “Cercavo una persona con cui registrare. Poi, a scuola, ho scoperto che lui ha uno studio attrezzato”.
Davide: “In effetti, i miei genitori sono musicisti. Mia madre, Rosanna Paolino, ha una scuola di musica. Papà Valentino è stato musicista e ora organizza serate, affittando impianti audio e luci”.
Mattia: “Io scrivevo già. Cercavo qualcuno con cui iniziare. Poi ho saputo di lui, quando già avevo scritto i miei primi testi. Io canto e scrivo, lui è il producer. Abbiamo iniziato a registrare quando avevamo 15-16 anni, con risultati che, risentendoli oggi, erano davvero insoddisfacenti: non si potevano ascltare. Il nostro primo vero pezzo risale a sei mesi fa, si intitola Sospiro“.
Perché “Sospiro”?
M: “E’ un’analisi interiore, faccio lo psicologo di me stesso e racconto quello che penso della gente. Il brano parla dei falsi amici, delle persone che vogliono farti credere di essere dalla tua parte, ma in realtà ti possono tradire”.
D: “Il rap ti permette di esprimere più concetti, attrae i giovani. Col rap puoi dire ciò che non potresti dire, ad esempio, a scuola. Puoi esprimere una protesta sociale, personale e politica. Noi esprimiamo una ribellione al sistema italiano della raccomandazione e delle conoscenze che ti permettono di aprire qualsiasi porta, anche se non hai alcun merito. Questo genere musicale mi ha dato voce, togliendomi gran parte di quella timidezza che prima non mi premetteva di esprimermi al meglio”.
Come nascono le vostre canzoni?
D: “Io compongo i primi beat e poi Mattia scrive il testo in base alla musica”.
M: “Preferisco adattare le parole alla musica e non viceversa, come accade in altri generi musicali”.
Chi non ama il rap lo definisce monotono.
D: “Il rap non è mai monotono e ormai è di dominio pubblico, come dimostrano il successo di Guè Pequeno e Fedez, però io preferisco il rap degli anni Novanta, quello di gruppi come Sangue misto e Club Dogo. Era proprio un rap di denuncia sociale”.
Quandi brani avete inciso fino ad ora?
M: “Il primo, nel 2017, è stato Sospiro, poi quest’anno Impara a non cadere. Ora il terzo brano, Gli occhi della morte: è una lettera che ho dedicato a una parte di me, la parte timida, che è morta“.
Possiamo definirla una sorta di trilogia della timidezza?
M: “In un certo senso, sì. Se sei troppo buono e timido, ti mettono i piedi in testa. La parte timida era una persona separata da me. Ne Gli occhi della morte l’ho immaginata morire”.
L’ultimo pezzo non è passato inosservato nel mondo del rap.
M: “Mi ha contattato Sercho, un artista conosciuto nel settore, per affidarmi l’apertura del suo concerto di Milano. E’ nato tutto per caso. Ho pubblicato su Instagram un minuto de Gli occhi della morte e sono stato contattato dalla sua agenzia”.
Questo cosa significa per voi? E’ l’inizio di una carriera, oppure pensate di fare altro e il rap rimarrà un hobby?
[mic_dx] M: “E’ l’inizio di qualcosa da perfezionare per crescere a livello artistico. Il rap è la nostra passione e sarà sempre così. Potrebbe essere l’inizio di un lavoro”.
Avete detto che il rap, per voi, è il genere ideale per parlare di tematiche sociali. Quale messaggio lanciate con la vostra musica?
D: “Vorrei che tutti i ragazzi pensassero con la loro testa, non con la mentalità della società che li circonda. La scuola crea operai, ma i giovani possono diventare quello che desiderano. Basta semplicemente crederci”.
M: “Da piccolo, vedevo i grandi del rap e sognavo. Ma avevo 8-9 anni e ho lasciato perdere. Mi dicevo: ‘Ma tu dove vai?’. Ora penso che, se avessi cominciato prima, oggi chissà cosa sarei diventato”.
A vent’anni non sei mica anziano…
“Lo so. Ma era per dire che i giovani, se vogliono, possono diventare ciò che sognano di essere”.