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Assistiamo da tempo ad una narrazione bipolare della cosiddetta “economia reale” e della sua ricaduta in termini di posti di lavoro: da un lato, c’è chi vede una ripresa economica e snocciola fior di statistiche e di proiezioni che la argomentano; dall’altro, c’è chi rileva periodicamente vecchie e nuove difficoltà aziendali, “tavoli di crisi” presso il Ministero, ristrutturazioni, che sono in evidente contrasto con la narrazione precedente.

Dov’è, quindi, la verità?

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Come spesso accade, essa è nel mezzo e, in tal modo, dà salomonicamente torto sia agli uni che agli altri.

Da un lato, è indubbio che accenni di ripresa ci siano stati in questi ultimi anni, ma sono appunto accenni, scintille che andrebbero sostenute con ossigeno e del buon fogliame secco perché diventino grandi fuochi. La tassazione troppo elevata, le infrastrutture inadeguate, la burocrazia asfissiante e, soprattutto, il sistema educativo che rischia di far rimpiangere la riforma Gentile, rappresentano ostacoli che frenano fortemente la ripresa.

Negli ultimi dieci anni, il mondo è cambiato profondamente, ma l’Italia è sostanzialmente rimasta al 2008; così, mentre altrove si investiva in ricerca, in formazione, in infrastrutture, noi “ristrutturavamo” le aziende pensionando i più esperti (salvo, poi, a volte, richiamarli al lavoro come consulenti esterni), tagliando i costi di manutenzione e investendo poco o nulla sul sistema educativo (anzi, facendo tagli) e ancor meno sulle infrastrutture. Risultato: il treno della ripresa è partito, ma non sappiamo come salirci a bordo e, al più, cerchiamo di aggrapparci a qualche maniglione, come in certi filmati dell’India di anni fa.

Dall’altro lato, dobbiamo distinguere con chiarezza tra crisi e crisi.

Una azienda che decida di spostare le attività dall’Italia, produce certamente una crisi occupazionale (e sociale), cui è arduo porre rimedio: chi decide siede a volte in un consiglio di amministrazione distante mezzo mondo da noi – geograficamente e culturalmente – e lavora per raggiungere obiettivi che non collimano affatto con quelli di chi vive e lavora qui. Si chiama “Globalizzazione” ed è un fenomeno inarrestabile, ma che si può affrontare, a patto di voler cambiare la struttura dei costi e dimostrare all’azionista lontano che gli convenga mantenere la produzione da noi, piuttosto che altrove. È un percorso complesso, certo spinoso, che nulla ha a che vedere con i “tavoli di crisi” o i “tavoli tecnici” che vengono normalmente invocati per lavare la faccia alla pubblica opinione. È anche l’unica strada, in questi casi.

Altra cosa sono le “crisi stagionali”, quelle “improvvise”, quelle che portano ad invocare il supporto della Politica e delle Istituzioni. Ora, capiamoci bene: le aziende di medie e grandi dimensioni programmano le attività su base annuale, con revisioni trimestrali e mensili; tali programmazioni hanno oramai una precisione elevata, poiché si basano su contratti pluriennali siglati con i clienti. A meno di catastrofi naturali che blocchino la catena di trasformazione, quindi, appare altamente improbabile che si presentino cali improvvisi e repentini delle richieste. Piuttosto, ci sono dei fenomeni di stagionalità, piuttosto chiari per chi lavora o ha lavorato nell’Industria, che andrebbero governati da chi gestisce: altrimenti non si comprende come mai ogni Autunno le commesse scendano “improvvisamente” e poi d’Estate si faccia fatica a chiudere più di due settimane per “esigenze di produzione”. Vista la ripetitività di tali fenomeni, sembrerebbe quasi (ma è solo una ipotesi concettuale, per carità!) che si tenda a privatizzare i guadagni e a collettivizzare le perdite (gli ammortizzatori sociali, per chi non lo ricordasse, vengono pagati dalla collettività, ma i guadagni, quando arrivano, restano giustamente in azienda).

Con tali premesse, è mai pensabile che possiamo stimolare una qualche ripresa?

Ed è così che, pensando a questa situazione di stallo, mi è tornata in mente una novella di Pirandello – “La Giara” – nella quale l’artigiano che doveva riparare la giara rotta rimane intrappolato al suo interno e il proprietario della giara non sa se liberare l’artigiano (rompendo la giara) o tenersela integra e riparata ma inutilizzabile, perché al suo interno c’è un uomo che, per inciso, avendo completato la riparazione, chiede anche di essere pagato.

Come risolve la questione il genio di Pirandello? Il proprietario sferra un calcione alla giara, rompendola definitivamente e liberando l’artigiano. Come a dire che, dalle situazioni di stallo, alla fine non esce vincitore nessuno.

di Elio Bucciantonio
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