E dunque il presidente della Regione non è più presidente della Regione. Luciano D’Alfonso decide di continuare a fare il senatore. Opzione scontata, visto che la sua prima esperienza a Palazzo Madama è iniziata da cinque mesi. Del resto, che fosse ovvia l’ha dichiarato lui stesso: “Avevo già scelto a marzo”, ha detto in un’intervista a La Repubblica, incalzato sul perché abbia allungato i tempi: era chiara l’incompatibilità, sancita esplicitamente dall’articolo 122 della Costituzione; inoltre D’Alfonso, pur avendo già deciso, ha atteso tutte le formalità di rito, evitando di dimettersi di sua iniziativa. Proprio lui che, nel percorrere un territorio regionale innervato da disastrate strade interne – come quelle che franano nel Vastese, tanto per fare un esempio lampante – spesso non aveva esitato a mostrare la sua insofferenza nei confronti delle lungaggini burocratiche e anche un velo di nostalgia per il suo quinquennio da sindaco di Pescara, quando poteva incidere con decisioni immediate e tempi più celeri. Stavolta, ha aspettato la burocrazia. Ha atteso, come ampiamente annunciato nei giorni successivi al 4 marzo, la riunione della Giunta per le elezioni e la formale votazione con cui (a maggioranza, nonostante si trattasse di un obbligo sancito dalla Carta costituzionale) la commissione gli ha chiesto di scegliere nel giro di pochi giorni. E D’Alfonso, come prevedibile, ha optato per il Senato. Lo ha fatto mantenendo in vita fino all’ultimo la legislatura regionale, stiracchiando i tempi tecnici del ritorno alle urne, allontanandolo il più possibile da quel 4 marzo 2018 da cui il centrosinistra, o ciò che ne resta, è uscito con le ossa rotte: in Abruzzo si è fermato al 17,6%, col Pd al 13,8% (5 punti in meno del 18,8% nazionale che pure rappresenta il minimo storico in 11 anni di vita del partito), Psi e Verdi (uniti nella lista Insieme) al di sotto dell’1% e Liberi e Uguali (a livello nazionale in antitesi al Pd, di cui sono alleati in Regione) al 2,6.
Se si voterà a novembre, la legislatura si chiuderà con sei mesi d’anticipo, ma l’Abruzzo è già nel pieno di una campagna elettorale permanente. Due votazioni in un anno – nel giro di 8 mesi – tre se si considerano anche le amministrative che, a giugno, hanno coinvolto 31 Comuni. Tornata amministrativa di portata limitata (coinvolti complessivamente 175mila elettori), ma da cui sono emerse alcune indicazioni inequivocabili: la Lega espugna per la prima volta un municipio abruzzese, Silvi, scalzando il centrosinistra, che vince a Teramo con un sindaco che subito tiene a precisare di non aver rinnovato la tessera del Pd e di aver riconquistato palazzo di città (dopo la caduta anticipata dell’amministrazione di centrodestra) con un’alleanza prettamente civica. Il clima, per il centrosinistra, non è dei migliori e la campagna elettorale regionale si annuncia in salita. Forse è stato questo – oltre all’iniziale incertezza sulla formazione del Governo Conte e, di conseguenza, sulla prosecuzione della legislatura nazionale – ad aver indotto D’Alfonso a temporeggiare, sperando in qualche passo falso dell’esecutivo gialloverde e nella fine di una luna di miele con l’elettorato che, a giudicare dai sondaggi dei giorni scorsi, è tutt’altro che tramontata.
Fatto sta, che l’Abruzzo è nel pieno di un clima da propaganda in cui gli ultimi atti di chi è al governo della Regione e le iniziative di chi sta all’opposizione sembrano essere compiuti con l’esclusivo obiettivo delle urne, nell’incertezza per antonomasia: quella del risultato elettorale che sarà.
A ben guardare, l’esito non è scontato, visto che la Lega decide di correre da sola: rompe col centrodestra, ma non ripete neanche l’esperienza nazionale del contratto con il Movimento 5 Stelle. I due alleati che sostengono il Governo Conte saranno, dunque, avversari in Abruzzo.
Nel centrosinistra molti interrogativi. Quale leader sceglierà il Pd al posto di D’Alfonso per tentare restare a Palazzo Silone? Al momento, circola il nome dell’attuale vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. E la sinistra, ridotta ai minimi termini dalle urne, starà ancora col Pd?
La confusione aumenta dopo che il Movimento 5 Stelle ha sospeso, improvvisamente, due settimane fa, le regionarie abruzzesi: le primarie online con cui gli iscritti alla piattaforma Russeau erano chiamati a scegliere i candidati alle prossime elezioni regionali. Votazione prima aperta e poi interrotta. Un brusco stop che Di Maio ha poi giustificato, nelle dichiarazioni rilasciate prima di salire sul palco di piazza Salotto a Pescara, dicendo che “se non sappiamo quando si va a votare, le regionarie sono premature”.
Incertezza generale. Proprio nel momento in cui i dati ufficiali pongono l’economia abruzzese ancora nelle sabbie mobili: come ha fatto notare la Cgil, a una modesta crescita del Pil fanno da contraltare l’aumento della povertà, con 350mila persone a rischio di scivolare al di sotto della soglia della sopravvivenza, e l’infinita precarietà di un mondo del lavoro in cui i nuovi contratti durano solo pochi mesi, spesso corrispondenti a una stagione turistica ancora troppo breve per produrre ricchezza in una regione che di bellezze ne ha tante, ma spesso sconosciute ai turisti stranieri e anche agli italiani. Una regione che ha bisogno – e in fretta – di scelte chiare della classe politica per abbandonare il triste primato (condiviso con la Basilicata) dell’emigrazione giovanile e dello spopolamento.