Dacché ne abbia memoria, ho sempre detestato viaggiare.
So bene quanto questa affermazione suoni stonata, conoscendo quanto lontano finii per giungere e quanto a lungo finii per trattenermi via da casa in quel Paese formidabile ed illogico al tempo stesso; tuttavia, l’arcano mesmerismo che regola tutte le cose fa sì che non di rado si giunga ad amare proprio ciò che si detesta e strade dapprima inconcepibili divengono nel corso della nostra vita non solo percorribili ma addirittura inevitabili.
Fu così che il mattino del 4 settembre 1912 salpai a bordo della mia aeronave dirigibile e puntai la prua in direzione Sud-Ovest, ritenendo scaramanticamente che muovermi verso il Sole fosse l’auspicio migliore che potessi chiedere per il mio viaggio. D’altro canto, il Vecchio Continente non poteva offrire alcunché di interessante per l’esplorazione e, anzi, i venti di guerra che già percorrevano seminascosti le capitali di mezza Europa riuscivano ad essere da soli un elemento di dissuasione alquanto potente.
Naturalmente, essendo io persona accorta e ponderatrice, preparai con estrema cura la mia partenza nel corso delle settimane precedenti.
Per prima cosa, mi procurai mappe militari e navali aggiornate e, su di esse, tracciai diverse rotte per valutare in anticipo rischi ed opportunità: pianificai dove avrei potuto fare soste per il rifornimento di viveri e di beni indispensabili, mi informai dettagliatamente su quali regioni fosse prudente evitare di sorvolare, individuai punti di riferimento sulla terraferma – un faro, una rocca, una popolata città costiera – che avrebbero potuto guidare il mio volo anche di notte, acquistai abbigliamenti opportuni per condizioni sia di caldo estremo che di estremo freddo, commissionai svariati recipienti di rame rivestito di alluminio, per contenere provviste di cibo e di acqua potabile, mi dotai dei più moderni strumenti di navigazione, bussole e cannocchiali.
Passavano i giorni e i miei calcoli diventavano sempre più febbrili, a mano a mano che scartavo rotte tracciate a matita e ne immaginavo di nuove per evitare alture, doppiare promontori, aggirare tratti troppo ventosi; trascorrevo ormai le notti insonni, accompagnato dalle cadenze antiche della pendola che rammentavano alla mia dimora e al suo unico abitante l’incessante trascorrere del tempo.
Finii questa minuziosa opera preliminare circa due settimane prima della partenza: a quel punto, sapevo esattamente giorno per giorno come avrei viaggiato – quante yarde avrei percorso e in che direzione, dove avrei sostato e quali provviste avrei dovuto reintegrare – da casa mia fino a Gibilterra: da lì in avanti, le scarse informazioni disponibili non mi avevano purtroppo consentito di estendere il mio piano di viaggio.
Dallo Stretto in poi, sarebbe iniziata la vera esplorazione.
Trascorsi gli ultimi giorni a rivedere tutti i miei calcoli e, solo di rado, a supervisionare il carico del materiale e delle provviste all’interno della aeronave.
Ero come il cacciatore che per giorni batte pazientemente le tracce lasciate dalla sua preda e, quando vi giunge vicino, inizia a temere che un ramoscello che schiocchi sotto lo stivale o un refolo di vento contrario mandino a monte il paziente inseguimento cui ha dedicato tanta fatica. E l’avvilimento diventa tanto maggiore quanto più vicini si è giunti a sparare il colpo decisivo.
Fu così che, un po’ per antica affezione, un po’ per sviare l’ansia di questi pensieri dalla mente, trascorsi l’antivigilia della partenza dal mio vecchio amico Roger Hinchinghook.
Come di consueto, egli gradì molto la mia visita, essendo noi legati da un’amicizia ultradecennale, rinsaldatasi sempre più nel corso del tempo; questa volta mostrò di gradirla più che mai, vista la mia imminente partenza.
Hinchinghook, in verità, si guardò dall’affrontare l’argomento, fintanto che non fui io a parlargliene.
Come era suo solito, egli ascoltò con attenzione tutti i vari dettagli che gli spiegavo, accompagnando le mie parole con qualche cenno di assenso; quando ebbi finito, si spostò appena sulla sua poltrona e chiese con un cenno dell’altro brandy ad un domestico che era rimasto accanto a noi, quasi invisibile, per tutto il tempo. Ne venne offerto anche a me, ma declinai.
“Posso chiedervi una cortesia, in virtù della nostra vecchia amicizia, Elliott?”, mi chiese.
“Naturalmente”
Hinchinghook mosse il brandy nel bicchiere facendolo ondeggiare mollemente, come se cercasse lì dentro le parole da pronunciare.
“Avrei piacere che voi soddisfaceste una mia curiosità, prima di rientrare a casa vostra ed ultimare i preparativi per la partenza…”
“Vi prego…”, lo esortai con un sorriso.
Osservai Hinchinghook: guardava da qualche parte oltre le mie spalle.
Esitò.
Quando si decise, infine, pronunciò una sola parola: “Perché?”
“Prego?”, chiesi, alquanto confuso.
Hinchinghook poggiò sul bracciolo la mano che sorreggeva il calice con il brandy e mi guardò dritto negli occhi. Non era solito farlo.
“Perché questo viaggio? Perché dedicare tanti sforzi ad una partenza che vi porterà lontano da casa, dai vostri affetti, dal vostro mondo? Avete già tutto, qui, in Patria; perché quindi cercare altrove ciò che avete già nella vostra terra?”
“Perché se restassi impazzirei”, risposi d’impulso.
Hinchinghook mi guardò sconcertato; i suoi occhi lasciavano trasparire con chiarezza le domande che gli affollavano la mente.
Respirai profondamente prima di continuare: la sensazione era quella di chi si trovi sul ciglio di un aspro crepaccio. Anche per questo, scelsi con cura le parole, prima di continuare.
“Ho sempre ritenuto che ciascun uomo nasca con una specie di ‘missione’ incisa nella sua anima, una impronta primordiale che ispirerà le azioni di tutta la sua vita, che egli voglia o no”; Hinchinghook ascoltava in silenzio.
“Ci sono uomini che nascono costruttori, votati a realizzare, ad organizzare, ad incrementare cose, pensieri, valori; altri nascono come semplici usufruttuari e vivono la propria esistenza avvalendosi del frutto dell’opera dei primi; altri ancora, infine, sono cercatori. È difficile da rendere con le parole ma … è come se per costoro nulla appagasse il loro animo, come se ogni vetta raggiunta sia solo un preludio ad una più impegnativa. I cercatori non costruiscono né fruiscono, ma anelano incessantemente il nuovo”.
Hinchinghook continuava a fissarmi, immobile.
“Io sento come se un demone mi graffiasse dall’interno, affliggendomi senza sosta e spingendomi a cercare, ad andare oltre, a conoscere sempre più senza tuttavia esserne mai pago; non c’è antidoto a tale tormento se non – per paradosso – prolungarlo ancora e ancora e ancora. Per questo, tutto ciò che ho costruito qui, in Patria, le fortune che ho accumulato e le attività che ho avviato con successo, sono ormai prive di significato per me, proprio perché già conseguite, e costituiscono solo una tremenda pulsione a cercarne di nuove”.
Hinchinghook abbassò gli occhi sui cerchi che il brandy tracciava, roteando nell’incavo del calice; poi aggiunse: “È un gran brutto male quello che mi state descrivendo, amico mio; come potete facilmente intuire, non condivido il vostro disagio e, pertanto, non lo comprendo, ma questo è motivo di ulteriore rammarico per me, che vedo allontanarsi un amico, forse per sempre”.
Fui colpito dalla malinconia di queste parole, al punto che non seppi più cosa replicare. Era sconforto, era rammarico, era forse delusione ciò che Hinchinghook voleva comunicarmi con quella frase?
Avrei potuto – avrei dovuto – aggiungere qualcosa per provare a mitigare il tono di quelle pesanti parole; un uomo dotato di buon senso avrebbe, infatti, evitato rimanessero le ultime pronunciate tra due amici che si salutavano, ma l’emozione mi travolse in pieno e pensieri su pensieri si affastellarono sempre più rapidamente nel mio cervello, calpestandosi a vicenda come una folla che fugga in preda all’isteria o al panico. Lottai per contrastare quella marea informe di emozioni e mantenerne in qualche modo il controllo, ma la lotta stessa mi assorbì totalmente, bloccando le parole nella mia gola, a mano a mano che si formavano.
Il nostro incontro si concluse di lì a poco: non c’era più molto che avessimo ancora da dirci, a quel punto. Tornai a casa e mi buttai a capofitto negli ultimi preparativi, cercando di concentrarmi su problemi minimi e concreti, che sgomberassero la mente dal senso di malumore che l’aveva improvvisamente invasa.
Nelle ultime ore, la malinconia che mi aveva instillato l’incontro con Hinchinghook era montata fin quasi a sovrapporsi alla euforia della partenza, tanto che accelerai ogni preparativo non tanto per l’impazienza di decollare quanto per spezzare quel senso di opprimente inquietudine.
E la partenza, dapprima solo desiderata ed ora agognata, sollevò il mio cuore esattamente come l’aeronave faceva con il mio corpo.
Ai Viaggiatori do questo racconto:
a chi è partito, a chi già è rientrato,
a chi dopo aver a lungo viaggiato
lascia il ricordo del sole al tramonto
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).