Chiuso nell’angusto spazio della carrozza cellulare come un delinquente di strada, umiliato nella mia dignità come mai fino ad allora mi era accaduto – e come mai più mi accadde, ringraziando Iddio! – avrei avuto ogni ragione di essere infuriato e di protestare con forza per far valere la mia innocenza. Tuttavia, mirabilmente, nulla di tutto ciò accadeva, mentre il veicolo in cui ero rinchiuso procedeva scortato dagli ufficiali che mi avevano arrestato, spinto (non tirato, come invece sarebbe stato logico) da quattro cavalli neri.
Più che dall’ira, infatti, ero letteralmente ed irrazionalmente divorato dalla curiosità.
Ero totalmente eccitato di essere il primo in assoluto a visitare quel luogo, incomprensibile ma così ricco di vivacità, di novità, di straordinarietà: d’altronde, a mia memoria, nessun altro esploratore o viaggiatore aveva mai riferito di gente come quella, delle loro strade, dei loro palazzi, della loro vita incredibilmente stravolta rispetto a ciò che avveniva in ogni altra parte del mondo.
Ero il primo a vedere tutto quello e non riuscivo mai ad averne abbastanza!
Dai finestrini anteriori del mio veicolo, seduto sopra la rigida panca di legno che faceva da sedile, potevo vedere per intera la strada lungo la quale i quattro cavalli sospingevano la carrozza: era una strada fatta di un terriccio giallo ocra piuttosto compatto, che non sollevava quasi polvere al nostro passaggio; ai lati, due larghi marciapiedi pieni di passanti, vestiti di abiti stravaganti e colorati, che guardavano curiosi attraverso i finestrini della mia carrozza, cercando di capire chi ci fosse all’interno; le loro pose, già di per sé insolite, diventavano ancora più bislacche quando le persone cercavano di superare con lo sguardo l’orlo dei miei finestrini per curiosare all’interno della carrozza. Erano così strambi, che mi venne da sorridere.
A pensarci adesso, questo mio comportamento era paradossale: invece di preoccuparmi della mia sorte, prigioniero in terra straniera, portato verso chissà quale destino da ignoti militari, sorridevo ai passanti, preso da una ingiustificata euforia di conoscere quel posto e quella gente.
Probabilmente, a quel punto, la stranezza assoluta in cui ero finito doveva avere in qualche modo iniziato a fuorviare anche la mia mente.
Le due ali di curiosi crescevano, a mano a mano che procedevamo lungo la strada e, per quanto mi sembrava di vedere, continuavano fino in fondo alla stessa, fino ai piedi dell’alto castello bianco che dominava l’intera città.
Hediclusp (così ricordo venisse chiamato) mi appariva come una rocca candida posta in cima ad una collina, lungo la quale si inerpicava la strada che stavamo percorrendo; era un castello con un unico, alto corpo centrale, circondato da mura robuste e da un ampio prato verde che terminava proprio sul bordo della sommità della collina, laddove essa iniziava a digradare verso la città.
Era imponente.
Era talmente bianco che, sulle prime, pensai fosse costruito di calcare, levigato alla perfezione da scalpellini dotati di straordinaria abilità.
Fintanto che eravamo lontani, non riuscii a percepire quanto fosse grande: la prospettiva e l’isolamento del castello dal resto delle costruzioni ingannavano la mia percezione e ritenni, sbagliando, che fosse appena un po’ più grande di una delle rocche o delle abbazie medievali che si vedono in gran parte dell’Europa centrale. A mano a mano che ci avvicinavamo alla salita che conduceva alla porta carraia, però, capii quanto mi fossi sbagliato.
Era una costruzione letteralmente immensa: alta forse un quarto di miglio, tanto che il tetto spuntava al di sopra dei nembi grigi che il vento aveva iniziato a spostare. Considerando anche la collina su cui si ergeva, stimai che il tetto del Castello di Hediclusp dovesse trovarsi a circa un miglio dal livello dalle strade della città che stavamo lasciandoci alle spalle.
A mano a mano che ci avvicinavamo, notai altri dettagli ancora: la rocca era dotata di finestre alte quanto cinque uomini e di un portale alto venti yarde. Sembrava la dimora di una qualche razza di giganti che dominassero da quell’altura tutta la stravagante regione in cui ero finito.
Fu a circa metà della salita che notai un ulteriore dettaglio che fino a quel momento non avevo notato: vidi, infatti, che le pareti lisce e bianche in realtà brulicavano di puntini scuri; guardai meglio ed inconsciamente pensai che si trattasse di insetti di dimensioni straordinarie (peraltro coerenti con la scala delle dimensioni di quell’edificio!). Tuttavia, c’era qualcosa nei movimenti di quei puntini che mi parve in qualche modo innaturale con ciò che avviene normalmente nel mondo degli insetti.
Sulle prime non l’afferrai, ma in un tratto di salita in cui avevo la visuale sgombra, misi a fuoco ciò che mi aveva colpito: quei puntini restavano per la maggior parte del tempo fermi in posizioni perfettamente simmetriche e regolari lungo tutte le pareti del castello e quei pochi che si muovevano lo facevano solo in orizzontale.
Ragionai che, essendo ben noto che gli insetti si muovano lungo i muri in qualsiasi direzione, non v‘era ragione per cui quelli che stavo osservando dovessero farlo solo in orizzontale, se non che non si trattasse affatto di insetti. La conferma di questa mia deduzione in verità non tardò molto ad arrivare.
L’ultimo tratto della salita era costituito da tornanti che si snodavano tra una vegetazione rada ma alta, che oscurava la poca vista del castello che mi concedevano i finestrini.
Giunti che fummo alla porta carraia, la carrozza si arrestò e i cavalli, stanchi per averla sospinta lungo tutta la salita, sbuffavano ed ansimavano dietro la carrozza.
Uno degli ufficiali di scorta si mosse verso la guardiola e parlò con un altro ufficiale, evidentemente del corpo di guardia, che aveva la divisa ornata di ben due croci al valore e portava sulle spalline i gradi di colonnello.
Era singolare, a rigor di logica, che un alto ufficiale fosse di servizio in una guardiola, ma la cosa, confesso, non mi stupì più di tanto, dopo ciò che mi era capitato in piazza; peraltro, ero estremamente più attratto dal castello a cui eravamo ormai giunti.
L’ufficiale di scorta tornò indietro, mentre la carraia si apriva con un prolungato clangore. Entrammo e, finalmente, ebbi dinanzi a me la visione completa della facciata del castello. Guardai fremendo dal finestrino, mentre attraversavamo le mura di cinta. Quando infine entrammo sulla spianata, rimasi letteralmente strabiliato.
La costruzione bianca, che da lontano sembrava compatta ed uniforme, era in realtà costituita da innumerevoli lastre tutte uguali – ciascuna larga una yarda ed alta più di due – appaiate e giustapposte con precisione incredibile su strati successivi; tra uno strato e quello superiore, c’era una sorta di ballatoio che sporgeva di una yarda al di fuori della facciata.
Ero certo: tale tecnica costruttiva era senza ombra di dubbio ignota a tutto il resto del mondo civile, in particolare poi per realizzare un edificio tanto imponente!
‘Quale incredibile materiale comporrà mai queste lastre, perché reggano un tale peso?’ continuavo a chiedermi; ‘Come fanno a restare così compatte ed unite?’. Queste ed altre decine di domande affollarono subito la mia mente, come un fiume che porti un’onda di piena verso valle.
Non avevo modo di stimare la massa del castello, dato che non conoscevo esattamente le sue dimensioni, ma certamente un edificio tanto alto avrebbe normalmente richiesto contrafforti e muri di contenimento giganteschi per essere edificato. Proprio non riuscivo ad immaginare quale mirabile tecnica costruttiva il misterioso architetto avesse usato per erigere quell’edificio.
Lo stupore, la curiosità, la frenesia mi avevano preso a tal punto, che mi ero dimenticato di dove fossi, di dove stessi andando, di ciò che mi era accaduto appena poche ore prima.
Di fronte a quello spettacolo di maestosità, ammetto, venni rapito al punto da dissociare la mia mente da tutto il resto. Il tempo, lo spazio, me stesso, persero di significato in quegli istanti ed ebbi addirittura come la sensazione di essere al di fuori della carrozza, che d’improvviso non esisteva più intorno alla mia persona.
Da quella specie di estasi di Stendhal, venni distratto all’improvviso da un vociare rauco e deciso.
Corsi subito all’altro finestrino per guardare e vidi un gruppo di operai, comandato da un caposquadra che berciava ordini come un militare in battaglia: la squadra trasportava a spalla una lastra di quelle che costituivano la facciata e si dirigeva verso un punto alla base del castello, in cui un’altra lastra doveva essere stata rimossa, dato che si vedeva uno spazio scuro invece del consueto bianco esterno. Erano in quattro – due per lato, e marciavano al passo scandito dal caposquadra.
Guardai meglio: erano operai ovviamente, ma ciascuno di essi era vestito in maniera difforme dagli altri. Uno aveva camice e stetoscopio, abbigliamento normale in una corsia di ospedale ma decisamente fuori luogo in quel contesto; accanto a lui, un omone vestito da fabbro, con tanto di pettorina ed arnesi infilati nella tasca; dall’altro lato della lastra, c’erano invece un taverniere ed un falegname.
Per ultimo, anche se avrei dovuto notarlo per primo, mi accorsi che il caposquadra era vestito da barbiere; anzi, era decisamente un barbiere, con forbici, pettini e rasoi che spuntavano dal taschino della sua camiciola azzurra!
Questo stravagante gruppo passò proprio davanti alla mia carrozza, che dovette cedere il passo ed aspettare che transitassero per riprendere a camminare: evidentemente, la loro attività era considerata di priorità assoluta rispetto a qualsiasi altra, perfino alla mia trasduzione con tanto di scorta militare.
La squadra giunse nei pressi del vuoto nella facciata e depositò a terra la lastra, con grandissima cura; poi, sempre agli ordini del barbiere-caposquadra, sollevò un’altra lastra lì vicino e si apprestò a portarla via. Al “tre” del capo, sollevarono prima un bordo e poi il secondo e, in quei pochi istanti in cui la lastra era in posizione obliqua, ebbi modo di osservarla meglio e, in particolare, di osservarne il lato interno.
Al centro della lastra, campeggiava un grande cuore rosso, riprodotto in scala ridotta anche nei due spigoli opposti, accanto ad un numero “2”.
“Muoversi, muoversi! Sostituiamo il due di cuori subito!” urlò lì vicino un altro caposquadra che doveva essere un mugnaio o un panettiere – non capii bene – ad un avvocato, un pellaio, un pescatore ed un bottaio.
Quelle, dunque, che avevo classificato fino ad allora come lastre, erano in realtà gigantesche carte da gioco? Non poteva essere vero …
Incredulo di quanto avevo appena visto, iniziai a vagare con lo sguardo e involontariamente guardai più in alto lungo la facciata, solo per avere un’altra sconvolgente rivelazione, ancora più assurda della prima.
Lungo tutti i vari ballatoi che separavano i vari livelli del castello, vidi decine e decine di persone poste a distanza regolare l’una dall’altra che stavano con entrambe le braccia allargate ed appoggiate alla facciata del castello. Erano artigiani, dottori di legge, commercianti e professori: ognuno di loro era austeramente impegnato a tenere ferme due lastre, una con la mano destra ed una con la sinistra, controllando costantemente che fossero entrambe stabili ed allineate al resto delle altre lastre.
Ogni circa dieci di loro, un caposquadra controllava che operassero al meglio, coordinandone l’operato con assoluta serietà.
I “puntini” che avevo intravvisto da lontano, perciò, non erano affatto insetti (ipotesi che avevo dapprima immaginato, ma poi immediatamente scartato): erano una moltitudine organizzata di persone, quanto di meglio la classe media di un Paese saprebbe esprimere, tutte costantemente impegnate a sorreggere le lastre della facciata di Hediclusp. Di questo non c’erano più dubbi.
In quel folle Paese, quindi, i maestri d’arte, i giuristi, i professionisti non erano impegnati nelle loro botteghe, nei loro uffici, nei loro opifici, ma sulla facciata e sui ballatoi della rocca, tutti perennemente intenti a tenerla salda a dritta?
Era, in cuor mio, il pensiero più assurdo che avessi mai formulato in tutta la mia vita!
Davvero – riflettevo – tutta quella maestosa costruzione poteva essere costituita da carte da gioco, sia pure di scala enorme, rette dai migliori ingegni di quella società?
La risposta venne di lì a poco.
La carrozza riprese a muoversi e costeggiamo la facciata del castello, per dirigerci verso un ingresso laterale che ci avrebbe condotti alla piazza d’armi del corpo di guardia; in questo breve tragitto ebbi modo di osservare ancora meglio sia la facciata che, soprattutto, i vari ballatoi che spuntavano con regolarità geometrica dalla facciata sopra di noi, a perdita d’occhio fino alle nubi. Erano costituiti delle stesse lastre della facciata, con la parte bianca rivolta verso le persone che sorreggevano le pareti e con un leggero dislivello verso l’esterno, in modo da far scorrere via la pioggia che vi fosse caduta.
Passando sotto di essi, però, potei guardare molto bene il lato interno di quelle miriadi di lastre perfette: erano tutte quante, inequivocabilmente, carte da gioco.
Come poteva esserci una logica? Era già incredibile che una simile costruzione potesse essere stata eretta, figurarsi se utilizzando carte da gioco! Per di più, tenute accostate da innumerevoli, zelanti professionisti!
Quel Paese non finiva mai di stupirmi: fino a poche ore prima, avevo ritenuto che ciò che mi era accaduto nella piazza fosse l’esperienza più strabiliante della mia vita, invece era nulla rispetto a quello che stavo osservando. Fu proprio a quegli eventi nella piazza che andò il mio pensiero, mentre il portone del castello si richiudeva dietro la mia carrozza, e non riuscivo a credere che tutto fosse avvenuto solo poco tempo prima – quello stesso giorno – tante e tali erano state le emozioni che avevo vissuto fino a quel momento e che ora è giunto il momento che inizi a descrivere.
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).