Ricordo ancora lui di fronte a me, immobile come io ero immobile. Rimanemmo così per diversi istanti, finché non realizzai che quel ragazzino vestito di cenci era davvero il re dei re e, quindi, verosimilmente si aspettava che gli manifestassi per primo il mio rispetto.
Rimasi interdetto da ciò che avevo appena visto ed ero naturalmente indeciso su cosa dire; pensai infine di salutarlo con un appellativo essenziale.
“Maestà …” dissi, chinando appena il capo, nel minimo indispensabile di riverenza che ero disposto a concedere. Sul mio onore, non riuscivo a credere di dovere rivolgere quel nobile appellativo ad un ragazzo che indossava luridi stracci: egli non era certamente un popolano – lo si vedeva dalle movenze sicure – me non capivo perché vestisse come un manovale apprendista e non come il suo presunto rango avrebbe invece richiesto.
Al mio saluto, egli sorrise e sollevò un poco la mano, facendola oscillare, come ad indicare che il mio approccio fosse inadeguato, improprio; “Amico mio, non sono uomo che ama avere titoli” commentò, mentre tutti i presenti attorno si scambiavano mormorii di profondo assenso per quelle parole; non posso negare, però, che non mi piacque molto essere chiamato ‘amico mio’ da un perfetto – ancorché probabilmente illustre – sconosciuto.
Attese che i brusii si abbassassero; poi, allargando le mani, aggiunse: “D’altronde, qui per me parlano i fatti non i titoli: non siamo certo riusciti a ricostruire e a rinnovare questo grande regno con i titoli!”. Qui i mormorii aumentarono di una ottava la loro intensità; girai lo sguardo intorno a me e vidi che tutti, nobili, re e regine, commentavano con entusiasmo le parole appena pronunciate dal re-dei-re, come se esprimessero verità sublimi e, a quanto capivo, profondamente condivise da chiunque in quella sala.
Vidi che il re mostrava apertamente di appagarsi di quel genere di reazioni, lasciando vagare il suo sguardo in lungo e in largo, senza posarlo su nulla e su nessuno in particolare, cullando semplicemente i suoi pensieri sul plauso compiacente della sala.
Erano tali e tanto stridenti le contraddizioni che percepivo da quel personaggio bizzarro, che scelsi una via molto prudente ed abbassai gli occhi in silenzio, non volendo adottare un atteggiamento sconveniente rispetto a ciò che stava avvenendo.
Ad un certo punto, egli mosse entrambe le mani davanti a sé e questo gesto portò al silenzio tutta la sala; attese che la calma tornasse, poi avanzò verso di me e (incredibile a dirsi) mi afferrò sottobraccio, come nemmeno il più vecchio e fidato dei miei amici si sarebbe mai permesso, trascinandomi di fianco a sé attraverso la sala!
‘Quale impudenza!’ pensai: ‘Come si permette costui di trattarmi come fossimo due avventori in una taverna del porto?’. Ero letteralmente indignato!
“Non siate sciocco”, mi disse a mezza bocca, ignorando il mio irrigidimento; “Qui siete tra gente perbene, aristocratici e patrizi, re e regine, veri giganti di queste terre. Costoro comandavano eserciti immensi alimentati da industrie colossali e da numerosi, abili mercanti; lo fanno ancora, in verità, solo … in maniera diversa, per un tramite nuovo: io”.
Pronunciava queste parole con noncuranza, come se stesse raccontando una storiella in una delle bettole che doveva avere certamente frequentato nella sua vita; le accompagnava con saluti e larghi sorrisi, elargiti a destra e manca ai tanti che lo ossequiavano e gli cedevano il passo.
“Vedete quel vecchio?” disse; vidi che indicava platealmente con il mento un uomo ricurvo, curvato non so se più dagli anni o dalla sfarzosa corona calcata sui suoi capelli bianchi. Al nostro passaggio, egli si piegò ancora di più, tanto che mi trovai a dubitare che avrebbe mai potuto risollevarsi.
“È il sovrano di Spadesland”, disse il re ragazzino; “un regno molte miglia a Nord da noi. L’altro accanto, invece, è il duca di Heartsland, suo alleato da generazioni, che vive nelle terre a Sud di Hediclusp, il posto in cui siamo”.
“Il Paese in cui siamo si chiama Hediclusp?” gli chiesi
Sorrise, senza guardarmi in viso. “Certamente no! Hediclusp è il palazzo in cui noi amministriamo e facciamo prosperare tutte le terre intorno a noi: contee, regni, ducati, marche e provincie, alcune così lontane che occorrono settimane per raggiungerle. Grazie a noi, hanno perfino dimenticato il senso di parole come ‘guerra’ o ‘povertà’: tutti vivono sereni e si godono la vita in una armonia che solo pochi decenni fa sembrava pura utopia. Il grandioso Paese in cui siete ospite si chiama semplicemente Atout”.
Ero onestamente sconcertato: come potevano avere realizzato una simile cosa? Davvero in quel Paese dal nome tanto strambo, in cui tutto mi appariva al contrario di ciò che avevo visto nella mia intera vita, erano riusciti nell’impresa che quello strampalato ragazzo vestito di stracci eppur riconosciuto come ‘re-dei-re’ mi stava spiegando? E che ruolo egli – così giovane eppure così sicuro di sé – poteva avere avuto in tutto ciò?
Glielo chiesi, pregando tra me e me che la cosa non lo indispettisse in alcun modo. Egli ascoltò attentamente le mie perplessità, tra le decine di ossequi e di saluti; alla fine, non parve in alcun modo contrariato, ma anzi compiaciuto di quanto gli stavo dando modo di illustrare.
“Come è stato possibile, mi chiedete? Tutto sommato, la spiegazione è molto semplice: è la ‘teoria del secondo’, nulla di più”
Strabuzzai gli occhi e repressi a fatica l’istinto di chiedere e chiedere ancora; avevo capito che egli amava giocare con i suoi interlocutori e che avrebbe certamente proseguito a raccontare, ma alle sue condizioni e con i suoi tempi.
Passammo oltre dei nobili rivestiti di ermellino, con i quali vennero scambiati lunghi saluti; poi, finalmente, si decise a continuare.
“Vedete, ogni re, duca, barone, generale, vescovo, chiunque abbia un ruolo di guida ha sulle sue spalle due grandi responsabilità. La prima è quella della scelta.
Di fronte ad ogni questione, egli dovrà fare delle scelte, valutando con molta attenzione tutto il quadro delle possibilità; se un capo sbaglia scelta, eserciti vengono sconfitti, sudditi vanno in miseria, economie cadono. Ma se egli fa la scelta giusta, i suoi sottoposti ne beneficeranno e il suo dominio continuerà a prosperare. In questo risiede la responsabilità della scelta. Un signore che sappia scegliere è la premessa per la fortuna di coloro che guida”.
Proseguì: “Tuttavia c’è una seconda responsabilità, altrettanto decisiva, che ricade sulle spalle di chi comanda ed è quella della decisione.
Sapere decidere significa riuscire a far attuare i propri voleri esattamente come sono stati concepiti e da tutti i propri subalterni. Ciò può naturalmente essere fatto in molti modi, alcuni più violenti, altri più sottili, ma in sostanza il bravo signore deve saper far fare agli altri ciò che lui vuole, nel modo che lui vuole”.
Interruppe nuovamente il suo monologo per salutare due giovani nobili – un uomo ed una donna – che si inchinarono al suo passaggio; stranamente, dedicò loro molta più attenzione di chiunque altro fino ad allora, me compreso. Quando terminarono la loro riverenze e si rialzarono, vidi che erano due giovani bellissimi, dai lineamenti delicati e con la pelle del viso liscia e curata. Entrambi avevano i capelli così scuri che i raggi del sole ne traevano riflessi bluastri.
Il re cencioso passò oltre e solo allora riprese il suo discorso.
“Scelta e decisione. Un signore davvero degno di tale nome deve perciò sapere accollarsi tutte e due queste responsabilità, poiché il suo dominio avrà sempre bisogno di entrambe.
Immaginate un dittatore che imponga sempre e comunque il suo volere ma che faccia scelte sbagliate: il suo regno finirà comunque in rovina, devastato da valutazioni scellerate. E che dire di un re illuminato che non abbia la forza di far eseguire le proprie ottime volontà? Anche in questo caso, quel regno non durerà a lungo e i suoi sudditi saranno preda di sconforto e, forse, anche di ribellione. Per questo, in passato come oggi, molti signori si attorniano di consiglieri, gente fidata, che cerca di alleviare l’onere di queste due immense responsabilità”.
“Voi, dunque, sareste il consigliere di tutti i signori in questa sala?”
“Siete strano, devo dire”, commentò sarcastico; “avete tanta curiosità ma non riuscite ad elaborare prospettive più ampie di voi stesso”
Arrossii per l’offesa e mi irrigidii nuovamente. Come osava trattarmi in quel modo un ragazzino vestito di stracci?
Ma lui continuò senza curarsene affatto.
“Un cocchiere può condurre un veicolo alla volta, ma chi istruisce i cocchieri può prepararne e consigliarne molti. Io, qui, non sono un semplice consigliere: io ragguaglio, sostengo, ammonisco, ispiro non ciascuno di costoro singolarmente ma tutti loro insieme. ‘Il Bene è di tutti, l’Autorità di ciascuno’; non l’ha letto sul nostro gonfalone?”. Così dicendo, mi indicò un enorme drappo verticale rosso, nero e azzurro, che ornava la parete alla nostra sinistra: nel centro, ricamata in lettere dorate, campeggiava proprio quella frase.
Ricordo che non potei fare a meno di notare quanto un motto tanto positivo ed evocativo, suonasse ora in modo sinistro dopo le parole che avevo appena udito.
Il re dei re diede per scontato che volessi saperne ancora di più, senza curarsi se fosse davvero così, e proseguì il suo soliloquio, avvicinando un po’ di più la sua bocca al mio orecchio e sibilando le sue parole, come se stesse comunicandomi un qualche inconfessabile segreto.
“La guerra? A che serve, se entrambe le parti si riconoscono in un Bene che è di tutti? La competizione? Superata, perché nessuno ha altro a cui aspirare. La miseria? Un pallido ricordo, sepolto sotto anni di Bene Comune. Certo, ci fossimo limitati a questo avremmo solo temporaneamente risolto il problema. Immaginate se ciascuno di questi regni, ducati, baronati e nazioni fosse stato semplicemente fuso in un più ampio dominio: avremmo solo spostato il problema dal singolo stato ad uno più grande, di fatto ampificandolo, non risolvendolo. Invece, la mossa vincente è tutta lì, nella seconda parte di quella frase sul gonfalone: ‘l’Autorità è di ciascuno’”. Così dicendo, si era talmente avvicinato a me che le nostre guance si sfioravano, mentre la sua mano spaziava lungo tutto il gonfalone con le dita divaricate.
Era certamente ebbro di tutto quello, pensai.
“Noi abbiamo preservato le peculiarità e le singolarità, abbiamo protetto e rafforzato ogni specificità e, anzi, abbiamo ulteriormente promosso la creazione di nuovi ducati e baronati, sempre più piccoli, così che ognuno – non ‘tutti’ indistintamente, badate! – si senta veramente rappresentato e, anzi, si riconosca lui stesso nella Autorità che gli abbiamo avvicinato molto più di prima, fin quasi alla porta di casa sua”.
Con una mossa svelta si sfilò da me e si allontanò di mezza yarda; solo allora mi resi conto che, per tutto quel tempo, il mio avambraccio era rimasto contratto attorno al suo e un crampo doloroso si sprigionò non appena cercai di distenderlo.
Il re giovinotto a quel punto alzò la voce e parlò a tutti, con lo sguardo che aveva assunto un leggero strabismo, mentre guardava oltre noi, oltre il castello, oltre confini che lui solo forse aveva individuato.
“Qui noi formiamo e preserviamo il benessere di ciascuno dei nostri sudditi e cittadini! Qui noi sorreggiamo il macigno della Scelta, avendolo suddiviso in tante minuscole pietre che ognuno porta sulle proprie spalle, laddove il peso grava su tutti noi ma su nessuno in particolare! Qui ha posto per prima le sue radici la pianta della Armonia e del Bene Comune!”
A queste parole, l’intera sala esplose in un entusiastico applauso, che pareva non volere mai finire. Non seppi onestamente quanto durasse, ma per minuti e minuti vidi re e nobili applaudire e lasciarsi trasportare con fervore, fin quasi alla commozione. Non c’era nessuno in quella sala che riuscisse a ritrarsi dall’onda di sentimento che percorreva tutti i muri e le persone.
Gli applausi, ora cadenzati, ora disarmonici, parevano muoversi in spirali incessanti tutto intorno a noi, tracciando arabeschi di euforia e ravvivando volti ed occhi come mai più vidi nella mia intera vita.
Quale fosse il potere di quel ragazzo non ebbi mai a saperlo con certezza, ma quale effetto generasse mi venne mostrato con chiarezza dal lungo, inarrestabile tripudio che ebbe il dono di innescare nella corte di Hediclusp.
A poco a poco quella ebbrezza collettiva sovrastò i miei sensi ed ebbi l’impressione che l’intera sala si muovesse intorno a me o che fossi io a girare su me stesso ed essa a rimanere immobile in quella baraonda in cui facce scorrevano su facce e battimani su battimani e l’unico punto fisso che trovavo era proprio il re ragazzo, che continuava ad apparirmi immobile ad ogni giro, come se si trovasse in un luogo che fosse nella sala e al tempo stesso alieno da essa. Fu così che la vertigine mi invase e ricordo che iniziai a percepire i suoni come attutiti, lontani; fui probabilmente più volte sul punto di perdere i sensi e non riuscii a notare che venivo portato fuori dalla corte a braccia, verso una porta che non avevo ancora notato o che forse non c’era mai stata e che in un attimo di deliquio immaginai che il re cencioso avesse fatto materializzare.
L’unica certezza che mi mantenne a contatto con la realtà fu il buio improvviso, accompagnato dal tonfo di una porta alle mie spalle, che chiuse ogni rumore dietro di sé.
Fu tanto forte il senso di deja vu, che sentii il pavimento cedere sotto il peso del mio corpo. Ero di nuovo al buio, nel silenzio.
Dopo quella specie di sabba visto nella sala, mi ritrovavo esattamente come prima che venissi fatto entrare nella corte di Hediclusp: nel buio, in attesa, nel silenzio.
La sensazione era che un altro cerchio si fosse appena chiuso attorno a me.
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).