Il tragitto era stato lento e lungo. Partimmo di buon mattino ed attraversammo per ore una umida brughiera immersa nella nebbia, percorrendo un ampio piancito brullo fatto di basoli scuri e scivolosi, sui quali rischiai più volte di finire a terra, ogni volta suscitando le risa dei miei guardiani.
Finita la brughiera, la strada si inerpicava di colpo sul fianco di una collina e saliva per un paio di miglia fino ad un valico dove ci fermammo a bere e a riposarci per qualche minuto.
Sotto di noi, alla nostra sinistra, il mare di nebbia che avevamo attraversato appariva compatto ed immobile, di colore grigio-blu – una coltre ovattata che nascondeva a chiunque la landa che avevamo attraversato prima della salita. Molto più oltre, verso l’orizzonte, dalla caligine emergevano la rocca e il castello, ben visibili perfino dalla nostra posizione.
Dall’altro lato, invece, la strada scendeva ripida verso una valle larga cinque miglia e lunga forse il doppio, che sembrava essere stata intagliata tra i boschi che si perdevano a vista d’occhio. Non c’era traccia di nebbia laggiù.
Dato che ero contro sole, non riuscii a distinguere molto di più e fui costretto a tenere a freno la mia curiosità e la mia angoscia, che lottavano tra di loro per prevalere su di me sin dalla partenza.
Scendemmo per quella discesa liscia e scoscesa con molta difficoltà, sorreggendoci agli arbusti nodosi che penzolavano ai suoi lati, a volte perfino procedendo con le terga appoggiate letteralmente sul selciato, e spesso non solo io ma anche i miei guardiani finimmo giù per diverse yarde, frenando la caduta solo a costo di molti lividi e graffi. Fu così dura che, una volta giunti a valle, ci fermammo nuovamente per prendere fiato.
Dopo pochi minuti, riprendemmo la marcia e, superata l’ultima curva, arrivammo ad una costruzione larga e bassa da cui si accedeva all’intera valle; davanti ad essa, un cartello di legno infisso nel terreno diceva laconicamente: “Free Meadows – colonia penale”.
Non nego che provai un brivido a leggere quelle parole, che rendevano ora concreto ogni mio timore.
Fintanto che eravamo in marcia, infatti, la mia incarcerazione era rimasta pur sempre una eventualità e conteneva comunque in sé un flebile barlume di speranza che, in qualche modo ignoto, potesse essere evitata; tuttavia, trovarmi ora laggiù, di fronte alla evidenza del destino che mi era stato assegnato, mi provocò una profonda fitta al ventre che si unì alla sensazione di non riuscire a respirare, come se l’aria stessa fuggisse via dal mio petto insieme alla mia libertà.
Durò pochissimo, per grazia di Dio, perché dall’interno dell’edificio ci vennero impartiti a voce alta ordini secchi di procedere oltre il cancello che costituiva l’ingresso a Free Meadows e il fatto di potermi concentrare su qualcosa di concreto da fare – fosse anche obbedire ad un ordine – sviò la mia attenzione dalla spirale che stava risucchiando la mia coscienza.
Varcai per primo quell’inferriata alta e pesante, che qualcuno aveva fatto ruotare giusto il necessario per aprire uno spiraglio per il passaggio; feci qualche passo e mi fermai ad aspettare che i miei piantoni arrivassero; udii invece il clangore della cancellata che veniva richiusa e serrata alle mie spalle. Mi voltai di scatto e vidi che i miei guardiani si erano già incamminati sulla strada del ritorno.
Ero solo.
Non dimenticherò mai il senso di vuoto che provai in quell’istante.
Per un attimo, rimpiansi perfino i miei carcerieri, la cui presenza incalzante era comunque preferibile a quella solitudine completa cui ero stato evidentemente destinato.
Una immensa, inesorabile angoscia stava ora esondando dalla mia anima e appannando ogni mio senso: i suoni della valle mi apparivano sempre più lontani, come quando da bambini si origlia attraverso le porte; gli odori dell’erba e dei boschi erano diventati dapprima confusi, poi flebili e infine assenti; i colori della natura e del giorno si erano tutti sintetizzati in un grigio perlaceo che rendeva indistinguibili perfino le forme intorno a me. Avevo freddo alle mani e, istintivamente, le ritrassi sotto le ascelle per cercare calore.
Fu quanto di più simile alla Morte potessi mai immaginare, tanto che la Morte stessa, in quegli istanti, mi appariva come un ineludibile sollievo alla mia condizione.
Rimasi lì, fermo, annichilito, tremante, per non so quanto tempo, finché lontanissimo da me mi parve di percepire – più che udire – un suono diverso.
Sulle prime non riuscivo nemmeno ad individuare da dove e da quanto lontano giungesse, poiché arrivava alla mia mente confuso nel ronzio incessante che ormai occupava totalmente il mio udito.
Poi mi scossi e mi imposi di cercare l’origine di quel suono e girai torpidamente la testa prima da un lato, poi dall’altro, finché non vidi il volto di un uomo vicinissimo al mio, che mi stava parlando con la bocca completamente spalancata, quasi stesse gridando.
Il mio spavento fu tale che persi l’equilibrio e caddi all’indietro. Senza smettere di tremare, mi preparai a scoprire le intenzioni di quell’individuo, ma, come mi voltai, egli scoppiò a ridere di gusto.
La sua risata fu il primo suono netto che riuscii a distinguere. Mi sorpresi di notare che, d’un tratto, non tremavo più e il prato era tornato verde e il cielo azzurro e le fronde del bosco frusciavano nel vento e l’erba era umida sotto il palmo della mia mano.
L’uomo si asciugò il viso con la manica e mi tese una mano per aiutarmi ad alzarmi.
“Nuovo, vero? Ho sentito il cancello, prima, e sono venuto a curiosare … Mi spiace di avervi spaventato, signore, ma temevo foste sordo perché, per quanto gridassi, sembrava che non riusciste a sentire la mia voce!”
Lo guardai meglio: era magro, di statura media ed aveva un’età indecifrabile ma certamente molto avanzata; la testa parzialmente calva era ornata tutta attorno da riccioli biancastri e spettinati che finivano in due lunghe basette ai lati del volto; era, però, perfettamente rasato e portava sul naso dei leggeri occhiali da lettura.
“Permettete? Liam W. Worth, studioso ed artista … o ‘pericoloso terrorista sociopatico’, volendo sintetizzare i miei numerosi capi d’accusa!”, mi disse tendendomi la mano.
“Anthony B. Elliott … viaggiatore”, risposi.
Worth aveva una stretta decisa che, insieme allo sguardo intenso, denotava un carattere risoluto. C’era, tuttavia, un senso di misura in quella stretta che era salda, sì, ma non vigorosa.
Nella mia esperienza di vita ho imparato che stringere la mano ad una persona può rivelare molto del suo carattere a chi sappia intendere: la parola, il sorriso, la postura possono, infatti, essere ingannevoli e, anzi, spesso lo sono; ma la mano no. La mano non mente mai, a patto, naturalmente, che chi la stringe sappia afferrare i messaggi che essa invia.
Fu per questo che, nello stringere la mando che Worth mi tendeva, mi feci all’istante l’idea di un uomo forte, ma non prevaricatore.
Worth mi piacque immediatamente e, insieme a lui, mi incamminai verso il centro della valle. Fu lui a spiegarmi che quel luogo, Free Meadows, era la colonia penale in cui il re dei re rinchiudeva quelli giudicati colpevoli dei reati più gravi.
I piccoli furti, i borseggi, le truffe di poco conto, infatti, non rivestivano particolare interesse per gli inquirenti e venivano spesso condonati e a volte addirittura graziati; per contro, reati come l’insurrezione, la cospirazione, l’anarchia e la dissidenza erano considerati tra i più gravi in assoluto e, per questo, giudicati con processi direttissimi che si concludevano quasi sempre con l’internamento nel posto dove eravamo.
Free Meadows era, perciò, pieno di scrittori, di studiosi, di medici e di insegnanti, di pensatori e di oratori: tutta gente che era stata riconosciuta colpevole di insidiare le regole e i costumi dominanti. Effettivamente, al contrario di quanto mi sarei aspettato, nel tempo che trascorsi laggiù non incontrai galeotti brutali ma ebbi anzi a conoscere persone garbate ed erudite, con le quali era perfino piacevole trascorre il tempo a confrontarsi su vari aspetti del sapere. In questo, più che una colonia penale Free Meadows sembrava il giardino di Epicuro, solo in scala molto più vasta.
Mi feci coraggio e, alla fine, chiesi a Worth di quale reato si fosse macchiato.
“Il peggiore di tutti”, mi rispose sorridendo; “ho esercitato il libero pensiero”
Lo guardai in silenzio, cercando di capire qualcosa di più dalla sua espressione: Worth mi fissava con quella sua aria serena, quasi assente, che avrebbe accompagnato molte delle nostre chiacchierate.
“E da quando il libero pensiero è un delitto?” gli domandai.
“Da quando le persone hanno cessato di essere tali e si sono trasformate in ‘gente’, ‘popolo’, ‘comunità’: così facendo, hanno rinunciato un po’ alla volta alle proprie facoltà di giudizio e di discernimento, preferendo delegarle ad altri che – naturalmente – li ripagano offrendo loro un mondo sereno, stabile, confortante. In un contesto del genere, il libero pensiero è assolutamente deleterio, poiché tende non a fornire certezze ma, anzi, a suscitare nuovi dubbi e a stimolare riflessioni nuove, ‘diverse’. Lei riesce ad immaginare qualcosa di più sovversivo, Elliott?”
“Quindi voi sareste finito quaggiù solo per avere espresso vostre personali opinioni?”
Sorrise. “Diciamo pure che ho deliberatamente affermato che questo regno è un’unica, immensa finzione che nasconde la verità delle cose dietro una patina di armonia e di felicità. Credo di avere usato le parole esatte: ‘uno stupido castello di carte, retto da mediocri imbecilli che si affannano solo a tenerlo in piedi’… Sì, credo siano state esattamente queste le mie parole”
Anche a me venne da sorridere: Worth era certamente dotato di grande empatia e di un magnetismo fuori dal comune.
“… e voi l’avreste detto davanti a tutti?”, gli chiesi.
“Oh, non davanti a tutti … L’ho detto solo all’intera corte, re dei re incluso!”
Per un attimo, immaginai la scena, con il re dei re e tutti gli altri nobili paludati che sbiancavano in viso, raccolti in cerchio attorno a Worth; anche lui dovette elaborare la stessa immagine nella sua mente e scoppiammo a ridere entrambi.
“Mi dispiace una sola cosa”, aggiunse Worth; “non aver potuto ripetere questo concetto davanti al concilio dei saggi, poiché il mio crimine è stato considerato tanto palese ed orribile che il re dei re ha disposto la mia incarcerazione senza bisogno di processo alcuno”
“Ah, io invece li ho ben conosciuti, Worth! Ho finalmente qualcosa più di voi da raccontare!”, risposi ridendo.
Worth era molto curioso di sapere di più sul concilio dei saggi e mi chiese di raccontargli la mia breve esperienza con loro. Acconsentii: dopotutto, era il minimo che potessi fare per ripagarlo.
Leggi qui la puntata precedente | Appuntamento alla prossima puntata con “Lo strabiliante viaggio di Anthony B. Elliott”].
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Elio Bucciantonio è nato a Chieti nel giugno 1967. Ingegnere gestionale, attualmente consulente, vive in Abruzzo, a San Salvo (CH), dove ha scritto la raccolta poetica “Settembre” (Ed. Cannarsa, 1993) e il romanzo “Il mondo perfetto” (Ed. Cannarsa, 2008).