C’è un gran parlare dell’Embraco e della Honeywell, in questi giorni, dopo gli annunci delle due aziende di chiudere le attività in Italia per spostarle all’estero. Questi due casi rappresentano solo la parte più recente di una scia che inizia da lontano e che ha “illustri” precedenti come Golden Lady e Bridgestone, tanto per citarne alcuni.
Peraltro, stando alla CGIA di Mestre, il numero delle partecipazioni all’estero delle aziende italiane è aumentato del 12,7% secondo gli ultimi dati riferiti al 2009-2015, tanto da far titolare l’ANSA: “Italia spinge delocalizzazione delle aziende, +12,7%”
Queste vicende, a dirla tutta, mi riportano alla memoria un evento ancora più lontano nel tempo, avvenuto nel 2010 nella più totale indifferenza dei media e del governo: la chiusura dell’Iveco di Valle Ufita (AV).
Si trattava, per chi non lo sapesse, del più grande stabilimento di produzione di bus e coach in Italia: la Iveco lo chiuse praticamente dalla sera alla mattina, trasferendo tutte le operazioni in Repubblica Ceca, a Vysoké Mýto.
Lavoravo, allora, in un’azienda che forniva componenti alla Iveco e, su nostro sollecito, venimmo ricevuti dalla Direzione Acquisti Iveco la quale ci rassicurò sulla nostra continuità di forniture, a patto – naturalmente – di spedire i nostri componenti in Repubblica Ceca (1.500 Km più lontana di Avellino) e allo stesso prezzo del fornitore che lo stabilimento ceco aveva già individuato in loco. Figurarsi!
Per la cronaca, la fabbrica Iveco di Avellino occupava circa 2.000 persone, senza contare l’indotto, ed era l’ultimo sito di produzione di autobus in Italia, dato che Cacciamali già li importava dalla Cina belli e fatti e Bredamenarini (che aveva gravi problemi finanziari) produceva su volumi talmente bassi da essere inconsistenti.
Non ricordo, all’epoca, indignazioni di massa o politici che abbiano perlomeno affrontato il problema: forse, l’essere lontani da elezioni di qualsiasi tipo rese tutta l’Italia indifferente verso il triste epilogo della produzione di bus italiani.
Mi si obietterà, a questo punto, che aziende multinazionali non sono affatto tenute ad occuparsi di ricadute sociali, di tradizioni, di territorio, perché per loro stessa natura debbono conseguire l’utile e basta.
Vero, ma solo in parte: allorquando lo Stato italiano – direttamente e per mezzo della Cassa del Mezzogiorno – finanziava l’avvio di queste attività e le sosteneva negli anni con sgravi fiscali, detassazioni, quando non con veri e propri aiuti di stato, dov’era la “multinazionalità” di tali aziende?
Vogliamo far finta di ignorare che bassi/nulli oneri di urbanizzazione, detassazioni, aiuti con fondi vari, incentivi alla rottamazione e Dio solo sa cos’altro, abbiano per anni aiutato i conti economici di tante aziende medie e grandi in Italia?
Troppo comodo fare le “multinazionali” ora!
Ma la colpa maggiore non è delle aziende, le quali fanno i propri interessi, dopotutto: è dei governi (con voluta lettera minuscola) che hanno lasciato che tutto ciò avvenisse – e avvenga tuttora – senza alcuna volontà di porre un freno. Sono loro che dovrebbero vergognarsi per primi.
Ma la vergogna delle vergogne è ancora un’altra: è il voler giustificare tutto ciò con un alto costo della manodopera italiana; come a dire: “guadagnate troppo per essere competitivi”.
Mi chiedo, allora, come facciano a lavorare in Germania o in Inghilterra o in Danimarca o in Giappone, dove gli stipendi sono ben più alti di quelli italiani!
Questa menzogna, infatti, serve a coprire il vero problema della competitività: gli alti oneri fiscali applicati sugli stipendi e gli alti costi dei materiali, che impattano – non dimentichiamocene – per circa il 55% del fatturato in un’azienda metalmeccanica media.
Vogliamo affrontare veramente il problema della competitività? Abbassiamo i costi della pubblica amministrazione e, di conseguenza, gli oneri fiscali sugli stipendi e facciamo una seria politica sulle materie prime e sull’energia. Il resto sono solo chiacchiere e mistificazioni.
Siccome, però, fare queste ultime risulta molto più facile e molto più “impattante” verso la pubblica opinione, temo che i casi Embraco ed Honeywell non saranno certamente gli ultimi che registreranno le nostre cronache.
Non a caso, sempre l’ANSA ci ricorda che al MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) ci sono attualmente 162 tavoli di crisi aziendale aperti, con in gioco il lavoro per 180mila persone.
Vogliamo davvero credere che se questi 180.000 disgraziati si dimezzassero tutt’a un tratto lo stipendio, tornerebbero tutti ad avere un lavoro stabile e duraturo?