Da sempre le disgrazie lasciano in me un sentimento di commossa compassione, dal quale il trascorrere degli anni non mi affranca.
Anzi, più tempo passa, più non riesco ad essere indifferente quando sento di vite spezzate, di tragedie personali, di malasorte accanita contro qualcuno; quando accadono di questi eventi, infatti, un solo grande pensiero finisce inevitabilmente per occupare tutta la mia mente: “stavolta è toccato a lui o a lei, ma la prossima volta potrebbe toccare a me”.
Mi sento, in definitiva, accomunato ad uno stesso destino con il malcapitato, perché gioia e sofferenza sono entrambe parte della vita di ciascuno di noi e nessuno può cambiare questo.
Purtroppo, in questi tempi di (in)comunicazione globale, il web ha dato a chicchessia facoltà di libera espressione tanto quanto di protagonismo, al punto che perfino su fatti complessi chiunque si senta ormai titolato a dire la sua e a profferire sentenze.
Quando, poi, questo fenomeno di “espressione di massa” investe fatti gravi o sciagure, il protagonismo tende a sfociare in cinica insensibilità.
Io credo, invece, che bisognerebbe che tutti ci fermassimo un attimo, di tanto in tanto, e riflettessimo bene prima di scrivere o – addirittura – di sentenziare: non è indispensabile formulare sempre opinioni e, forse, a volte sarebbe meglio rispettare il dolore, in qualunque sua forma esso si manifesti, con l’unico mezzo che abbiamo: il silenzio.
Dubito, però, che tale rispettoso silenzio sia ormai compatibile con la nostra moderna civiltà.
“Eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”. (F. Fellini, La voce della luna.)