E’ già passato un anno. Trecentosessantacinque albe e tramonti ci separano da quel maledetto giorno in cui vennero spazzate via le giovani vite di Andrea Marinelli e Domenico Castrignanò. Quante lacrime cadute quei giorni, e quanti ragionamenti sulla vita e sulla morte si rincorsero sul web e tra la gente. La nostra città rimase muta, attonita, basita, colpita al cuore da quel profondo dolore che nessuno è riuscito ancora a metabolizzare e con il quale spesso ci confrontiamo.
Per capire meglio il senso della vita e della morte, potrebbe risultare opportuno un riferimento alla cultura e alla mitologia ellenica. Presso i Greci, le Mòire, che i romani chiamavano Parche, erano figlie di Zeus e di Temi. Il loro compito era aiutare la madre a mantenere il rispetto per l’ordine della natura e della vita umana. Vivevano nell’Olimpo, in un palazzo di bronzo, sulle cui pareti incidevano i destini degli uomini. Nessuno poteva cancellare ciò che le Mòire avevano scritto, nemmeno Zeus. Da alcuni erano rappresentate come vecchie; ma più spesso come giovani dall’aspetto severo, vestite con dei lunghi pepli bianchi trapunti di stelle. Le tre dee filavano la vita degli uomini: Cloto, filava lo stame; Lachesi, girava il fuso per torcere il filo, e decideva le sorti della vita che stava filando, usando lo stame bianco misto ai fili per indicare i giorni felici e lo stame nero misto ai fili d’oro per indicare i giorni di sventura; Atropo, la più vecchia, con in mano le forbici tagliava il filo della vita, determinando il momento irrevocabile della morte. Il Fato, per i Greci, era ineluttabile e inarrestabile.
La nostra cultura, la nostra filosofia, il nostro logos: vengono tutti da quel mondo lontano, arcaico e moderno al tempo stesso. Quante volte, forse troppe, a Domenico e Andrea e al resto dei miei alunni ho parlato della morte e della vita lungo i percorsi della storia, della letteratura e del pensiero: ecco, forse a scuola si parla più della morte che dell’esistere. E quante volte, in fondo ai loro occhi sinceri e aperti al mondo, ho colto quella sottile inquietudine che ti afferra quando sei giovane e pensi che la morte sia un evento lontano, imperscrutabile e che non ti riguarda.
E invece, purtroppo, Atropo – come abbiamo potuto constatare anche in altri tragici fatti di cronaca avvenuti a Vasto di recente – ci aspetta al varco con le sue forbici e non fa sconti in base all’età.
Cari ragazzi, morti nell’età più bella, quando la vita promette quel che poi purtroppo spesso non manterrà, serberemo sempre intatti la vostra memoria e il silente dolore delle vostre famiglie, con cui ancora vi piangiamo, ricorderemo integri i vostri sorrisi e la vostra allegria, i vostri sogni e i tanti progetti da realizzare. E che la vostra dipartita serva a tutti noi per capire meglio la caducità della vita e il senso da dare ai giorni che le Moire ci vorranno ancora concedere.
prof. Fabrizio Scampoli