Secondo l’Ocse, l’Italia nel 2016 è risultata l’ottavo Paese al mondo nella classifica delle nazioni di nuova emigrazione. Secondo le stime fatte dal centro studi Idos, l’anno scorso circa 285.000 italiani hanno deciso di dare una svolta alla loro vita tentando la fortuna all’estero, con la “perdita” di circa 9 miliardi di euro investiti nella loro istruzione. Negli ultimi anni questo flusso è in aumento costante, ha superato quello dell’arrivo di immigrati nel nostro Paese e rischia così di trasformarsi in una vera e propria emorragia.
È difficile avere dati sicuri sul numero degli Italiani che, ogni anno, abbandonano il nostro Paese. Non tutti, infatti, cambiano la loro residenza anche se, di fatto, si sono spostati stabilmente nel Regno Unito o in Germania (le due principali destinazioni dei nostri connazionali). L’Istat dichiara 114.000 residenti in meno nel 2016, mentre l’AIRE, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, dichiara 224.000 nuovi iscritti nello stesso anno. La stima del centro studi Idos appare comunque una stima accurata e significativa del flusso in uscita che riguarda soprattutto laureati e dottorati in cerca di un’occupazione confacente ai propri studi.
Che esista una “fuga dei cervelli” è cosa nota. Che stia assumendo dimensioni così epocali, tanto da invertire i flussi demografici, è invece questione ignota ai più e al momento piuttosto sottovalutata. Certo, secondo le statistiche non siamo ancora alla situazione del secondo dopoguerra, quando negli anni ’50 gli emigranti furono ben 2.937.000 (con una media di circa 300.000 l’anno). Negli ultimi 5 anni, infatti, le stime ISTAT parlano di 505.000 emigranti complessivi (circa 85.000 l’anno), ma il trend è in forte crescita ed i numeri stimati dallo studio del centro Idos (i 285.000 emigranti del 2016 di cui parlavano prima) risultano impressionanti.
Ciò che, però, appare in prospettiva spaventoso è che, al contrario degli anni ’50, questo è un Paese in forte calo, che non è più attrattivo e non appare in grado di richiamare a se le teste e le braccia che sono andate via. Mentre l’emigrante degli anni ’50 partiva con tanta voglia di fare e tanta voglia di tornare al più presto a casa, chi parte oggi lo fa spesso stanco e demoralizzato, cosciente di doversi giocare le sue carte comunque per rimanere fuori dall’Italia, visto che qui non avrà degne opportunità di lavoro e di realizzazione personale.
E così la mia generazione (i nati negli anni ’70, quelli che si sono trovati per primi le porte del pubblico impiego sbattute in faccia, quelli che per primi si sono dovuti “inventare un lavoro” come dicevano i soloni seduti sui loro alti scranni di mantenuti pubblici, quelli che hanno fatto i conti con la rivoluzione digitale che prometteva successo e felicità per poi dare sottoccupazione e tristezza) ha già perso tanti fratelli che, dopo un brillante corso di studi, hanno deciso di abbandonare la nave per cercare fortuna altrove.
Guardatevi intorno. Dove sono i nostri fratelli? Dove sono i vostri figli? In molti casi sono in giro per l’Europa, a cercare un posto dove valga la pena rimanere. Hanno trovato quello che cercavano? Nonostante gli articoli dei giornali (quante belle storie sui cervelli in fuga di successo, quelli che fanno conoscere il nome dell’Italia nel mondo…), nella maggior parto no! Non hanno trovato né una particolare realizzazione professionale, né l’agognata felicità. Hanno trovato il pane e la dignità, quello che qui non avevano. E pertanto, se le cose non vanno bene, preferiscono piuttosto cambiare paese (dal Belgio alla Germania, dal Brasile all’Argentina), ma non tornano in Italia.
Molti accusano di questa situazione il sistema universitario e della ricerca che, popolato da “baroni”, sarebbe allergico alla meritocrazia e non darebbe spazio sufficiente a chi merita davvero (da qui la narrazione “romantica” dei cervelli in fuga: “vado via perché non mi apprezzano!”). Purtroppo è una narrazione fuorviante. Così come è assolutamente sbagliato il racconto che le nostre università siano comunque in grado di fornire una solida preparazione e che i nostri laureati e dottorati siano apprezzati e ricercati all’estero per questo motivo.
Purtroppo sono tutte palle.
L’amara verità (e ce lo dicono i numeri) è che l’Italia è un paese dedito sempre di più al consumo. E sempre meno alla produzione (abbiamo perso in 10 anni oltre il 25% della produzione industriale) e, soprattutto, quasi più per nulla all’invenzione e alla progettazione. Interi comparti, una volta fiorenti, sono stati completamente annientati (l’Informatica, l’Elettronica, le Telecomunicazioni, la Chimica, ecc.). Cosa ce ne dobbiamo fare allora di tutti questi laureati? Soprattutto, cosa ce ne dobbiamo fare di tutti questi trentenni con la magistrale, il master o il dottorato, se il poco lavoro che c’è sul mercato non è lavoro di ideazione, non è lavoro di ingegnerizzazione, magari c’è un po’ di produzione e, soprattutto, c’è sempre solo tanta vendita?
Quando si fanno i raffronti con il numero di laureati di altri paesi (in Italia il numero dei giovani laureati è il 28% del totale, mentre nei paesi OCSE è il 36%), si dimentica che il nostro sistema scolastico è differente. Se si guarda al numero dei laureati con la Magistrale, scopriamo infatti che il Italia il 20% dei giovani la possiede, contro il 17% della media europea. Abbiamo un’istruzione mediamente insufficiente (siamo un popolo piuttosto ignorante), ma abbiamo un numero elevato di specialisti iperformati che, purtroppo, vengono respinti da un mercato del lavoro incartapecorito.
È chiaro che, se il sistema produttivo si involve (cosa che sta succedendo da almeno 25 anni e non solo negli ultimi 10), le opportunità per chi ha una formazione distonica rispetto alla realità produttiva si riducono. E non si può pretendere che il sistema pubblico della formazione e della ricerca, profondamente staccato dal Paese reale e dedito fondamentalmente a rigenerare se stesso, possa assorbire tutti i laureati in eccedenza, dando loro una collocazione adeguata.
È inutile dire che il sistema funziona male. Il sistema funziona come è pensato che funzioni. Se l’Università italiana non deve produrre ricerca e non deve rapportarsi con il mondo delle imprese, continuerà a cooptare personale adeguato ai propri obiettivi, che sono orientati al semplice insegnamento disciplinare; pertanto un portaborse cresciuto “in casa” sarà sempre molto meglio di un piantagrane che ha fatto dieci anni di esperienza all’estero e (così pensano i “baroni”…) vuole tornare qui a insegnarci come si vive!.
L’altra amara verità è che il nostro sistema non è migliore di altri. I nostri laureati non sono più bravi o più apprezzati di quelli di altri paesi. Lo dimostrano le classifiche delle Università a livello mondiale, classifiche che vedono i nostri primi atenei dopo la duecentesima posizione! E me lo dimostrano anche le tante esperienze pratiche che ho avuto, sia come studente all’estero (in Francia negli anni ‘90), sia come datore di lavoro di laureati in altri paesi Ue e non.
Perché, allora, i nostri laureati “vanno” sul mercato estero?. Stiamo semplicemente esportando “il meglio” della nostra produzione di risorse umane e lo stiamo svendendo su un mercato che, ovviamente, se lo accaparra perché lo trova molto conveniente. È un po’ come se immaginassimo di vendere i nostri calciatori di serie A a squadre tedesche di serie B o C. Non vuol dire che il nostro calciatore sia pari o migliore di quelli tedeschi che militano in Bundesliga (la serie A tedesca). Anzi! Semplicemente, una squadra di serie B trova conveniente avere un calciatore da serie A, anche se è italiano e un po’ vecchiotto. Soprattutto perché accetta ben volentieri il salario della B tedesca (magari anche della C)!
Una riprova della profondità dei nostri mali è data anche dalle caratteristiche del fenomeno inverso, quello dell’immigrazione. Rimanendo nella metafora, abbiamo smesso di prendere calciatori della serie A rumena o albanese (che fino a 10 anni fa facevano di tutto per venire in Italia) e li stiamo rimandando a casa. I numeri dell’immigrazione sono mantenuti alti solo dall’arrivo dei profughi (politici ed economici) che sono, purtroppo, dei disperati in cerca di salvezza, non dei professionisti alla ricerca di opportunità di crescita e di inserimento. Dal 2008 allo scorso anno, sono stati infatti quasi 300.000 gli immigrati (soprattutto di origine dell’Est-Europa) che hanno fatto ritorno al loro paese di origine o hanno abbandonato l’Italia per un altro paese europeo.
Dov’è allora il problema? Se il nostro decadente sistema universitario è solo un effetto e non una causa dei problemi del sistema-paese, il motivo che genera questa emorragia di uomini e di soldi dall’Italia verso l’Estero è molto più profondo. In Italia non c’è lavoro o, meglio, quello che c’è è malpagato. Uno studio dell’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro riporta che chi va all’estero riceve una busta paga ben più sostanziosa: la differenza fra il salario medio di chi già lavorava e poi è emigrato supera i 500 euro, ovvero cresce del 43,8% rispetto alla retribuzione percepita prima in Italia.
In un paese in cui i pensionati sono oltre 18 milioni ed i lavoratori a tempo pieno sono all’incirca altrettanti (oltre a 3,8 milioni in part-time), in un paese in cui molti hanno lavorato meno di 30 anni effettivi e percepiranno la pensione per ben oltre 30 anni (quando i contributi accantonati ne avrebbero coperti al massimo 12-13), in un paese in cui circa un milione di persone sono eletti di qualche organo politico o amministratori di partecipate o comunque vivono di “rappresentanza democratica” e dei suoi vari e a volte curiosi risvolti, in un paese siffatto, dove volete che sia il problema?
È come il coccodrillo che divora i suoi figli e poi piange amare lacrime, ma continua tranquillamente a mangiarseli.