Il centro storico di Vasto è, ormai da anni, un malato cronico al cui capezzale si sono succedute già diverse amministrazioni. Spopolato, vandalizzato, svuotato delle sue attività storiche, è adesso oggetto di un piano urbanistico (il piano Cervellati) approvato a fine 2015 dopo una gestazione di ben 6 anni. Nonostante il coinvolgimento di un eminente urbanista (Cervellati è stato l’inventore delle isole pedonali in Italia), gli effetti tardano a manifestarsi e, soprattutto, non si intravvede alcun segnale di cambiamento in una rotta che, di questo passo, porterà il centro storico ad essere solo una cartolina un po’ sbiadita per i turisti agostani.
Il 7 agosto 1982 Franco Battiato, a chiusura del suo concerto allo stadio Aragona di Vasto, cantava “Centro di gravità permanente”, tratto dall’album “La voce del Padrone” che, uscito l’anno precedente, aveva sfondato per primo in Italia il tetto del milione di copie vendute.
Il giorno dopo, sulla spiaggia cittadina, un bambino di otto anni cercava ansiosamente qualcuno che gli raccontasse com’era il centro in quella sera. Cosa significavano 6000 persone assiepate nello stadio di fronte al quale passava tutti i pomeriggi, ma il cui boato lui non poteva sentire dal balcone della casa di periferia in cui tornava tutte le sere a dormire.
A distanza di 35 anni, quello stesso bambino, non più proprio tanto bambino, si affaccia ad uno degli abbaini della sala convegni della Società Operaia di Mutuo Soccorso e, guardando sotto di lui il sagrato della cattedrale, prova una sensazione di compiutezza cosmica. Si rende conto che il suo centro di gravità è quello e solo quello. E nulla potrà cambiarlo.
No, non sto scrivendo il seguito de “Il favoloso mondo di Ameliè”, sto solo creando una storia per legare il titolo che mi piaceva con l’oggetto di questo articolo, il centro storico (di Vasto), che, in questo suo ruolo, potrebbe essere anche il centro storico di qualsiasi altra città in cui ognuno di noi è nato ed in cui ha avuto il suo imprinting.
No, caro lettore, non ti arrabbiare. Non ti sto prendendo in giro. Tutti i fatti narrati nell’incipit sono reali. Il concerto di 35 anni fa c’è stato ed è stato davvero un evento (il primo mai tenuto allo stadio Aragona). Io avevo veramente 8 anni ed ero facilmente suggestionabile. Adesso non lo sono più tanto, ma venerdì scorso sono stato davvero colto dal magone guardando la piazza di Vasto da quella inedita prospettiva.
Vorrei, caro lettore, che anche tu pensassi intensamente al tuo “Centro”, il luogo che è dentro di te da sempre, e fossi colto dalla stessa emozione che ha colto me la settimana scorsa. La stessa sensazione di ritornare bambino per un instante.
Il Centro, prima di essere un luogo fisico, è un luogo dell’anima. Ed è fondamentale perché rappresenta il simbolo della propria identità socializzata. Ovvero di quella parte di identità che condividiamo con altre persone (soprattutto i nostri coetanei con i quali abbiamo frequentato quegli stessi posti) e che non è solo nostra esclusiva. Certo, ognuno di noi ha anche ricordi legati ad altri luoghi. Luoghi speciali che, però, sono importanti solo per noi. La casa di famiglia, un certo albero in campagna, ecc.
Il centro storico, però, è un’altra cosa. Ad esso e ai suoi angoli più caratteristici e frequentati si collegano le suggestioni che formano altrettante “strutture identitarie”. Sono queste a sostenere la nostra personalità e, dandole un posto nel mondo, placano quell’ansia che altrimenti ci assalirebbe se ci lasciassimo trasportare da dilemmi esistenziali.
Facciamo un esempio pratico: perché il vastese è interessato a Gabriele Rossetti? Che i vastesi siano interessati me lo hanno dimostrato i numerosi commenti ricevuti per l’editoriale dello scorso venerdì… Ma perché? Perché è un lettore delle sue opere? Uno studioso della carboneria? Un appassionato di opera napoletana di inizio ‘800?
No. Gli interessa Rossetti solo perché fa parte del suo mondo. Quello esteriore (la statua che vede da sempre in piazza) e quello interiore (la statua stessa è una sorta di riferimento per le strategie dello struscio serale). Gli piace sentirsi raccontare che Rossetti è storicamente rilevante perché questa rilevanza amplifica la sua stessa identità (… ma, allora, vedi che non sono nato in una città qualsiasi?).
Anche l’obiettiva importanza storica o architettonica di palazzi e monumenti è assolutamente secondaria. Sono i luoghi del cuore ad essere importanti. Se così non fosse, perché avremmo allora sui social migliaia di foto della loggia Amblingh, mentre nessuno posta mai una foto, per esempio, delle Terme Romane? Semplice. Le Terme Romane non fanno parte del circuito del proprio vissuto. Pertanto non rientrano nella propria “struttura identitaria”. Sono in centro, ma rimangono periferia dell’anima.
Uno dei motivi per cui tanti dicono che a Vasto si vive bene è proprio questo. Non è il fatto di passeggiare fra mura di duemila anni fa (altrimenti andrebbe bene qualsiasi scavo archeologico). Non è la lunghezza della passeggiata pedonale (altrimenti andrebbe bene qualsiasi centro commerciale). È il retaggio identitario che ogni giorno ci dà un motivo per sentire di far parte di qualcosa. E per sentirci qualcuno.
In un articolo di due settimane fa, ho messo in guardia dalle conseguenze negative di questa forte capacità identitaria (che può anche generare una ristrettezza di vedute che scade nel campanilismo più deteriore). Allo stesso tempo, però, non si deve buttare via il bambino con l’acqua sporca e bisogna comprendere come questa caratteristica sia il motivo fondamentale perché Vasto possa considerarsi una comunità e la qualità di vita sia maggiore di quella che i riscontri oggettivi farebbero presupporre. Soprattutto, questa peculiarità storica e culturale va considerata un prodotto (la tipicità) su cui possano essere innestati diversi processi economici.
Come far sì, allora, che il centro non deperisca?
È oggettivamente molto difficile e non è neanche più solo una questione di urbanistica. Cervellati, che proponeva con il suo piano originario di estendere la zona pedonale fino a Porta Nuova, sembra partire dal presupposto che l’obiettivo, anche a Vasto (come per la Piazza Maggiore di Bologna del 1964), sia quello di rendere più fruibile uno spazio comunque già a vocazione pubblica.
Il problema, invece, è che oggi, a Vasto, il centro storico (anzi, solo una sua parte) è a vocazione pubblica solo per due-tre ore al giorno. Quelle del passeggio. Nel resto della giornata, i vastesi non hanno nessun motivo per andarci. E smettiamola di guardare ai poveri esercenti e agli ormai rarissimi artigiani. Non sono loro a poter trainare la ripresa del Centro Storico. Le loro attività, semmai, potranno rifiorire solo se ci sarà gente di passaggio durante tutta la giornata. Con i tempi che corrono, di certo non basta una nuova boutique per attrarre flussi di persone costanti e consistenti.
Il problema, quindi, non è tanto quello dei negozi che chiudono. Il problema vero è un altro. Dove sono finite le scuole? Dove sono finiti gli uffici pubblici? Dove sono finiti i servizi essenziali a cui ogni cittadino deve rivolgersi più volte l’anno? Sono stati tutti dislocati in periferia. Normalmente in luoghi urbanisticamente orridi (pensiamo al caos di certe strade della città nuova). Senza piazze, senza marciapiedi, senza parcheggi. Senza luoghi di socializzazione. A volte con motivazioni comprensibili (non avrebbe senso rimpiangere l’ospedale di 60 anni fa nelle strutture del convento di Santo Spirito…). A volte no (è stata davvero una buona idea privatizzare gli edifici di C.so Nuova Italia?).
Se è la pubblica amministrazione (non l’amministrazione cittadina corrente, ma le amministrazioni degli ultimi 40 anni dei diversi enti interessati) a scegliere di svotare il Centro Storico, come pretende che poi siano i privati a sopperire a questo problema, magari solo perché gli viene facilitata una concessione per una ristrutturazione edilizia di un rudere (con 4000 case vuote nei dintorni, molte delle quali mai abitate)?
Oggi purtroppo è tardi per invertire la marcia. Teoricamente sarebbe possibile, bisognerebbe iniziare a disdire un po’ di contratti d’affitto di uffici sparsi qua e là e investire sul recupero e la messa in servizio del patrimonio immobiliare storico non più utilizzato. È evidente come questo, però, richieda un impegno economico tale da non poter essere assolutamente affrontato dall’ente pubblico interessato (per lo più il Comune), che non ha i margini per operare in tal senso.
Anche qualora si individuassero dei finanziamenti speciali (es. un finanziamento europeo) per il recupero di un complesso architettonico e per una sua nuova destinazione d’uso (per esempio, Palazzo Genova Rulli), l’effetto sarebbe limitato a quell’intervento e non potrebbe risollevare un centro storico come quello di Vasto che si estende per oltre 10 ettari.
Dal punto di vista pratico, quindi, non rimane che accettare la destinazione del Centro a “bella di sera” e attrezzarsi di conseguenza. Il centro di Vasto è destinato a spegnersi lentamente dal punto di vista fisiologico (gli abitanti e le attività commerciali continueranno a diminuire), ma potrà continuare a vivere come simbolo storico e culturale se almeno verranno fatte delle azioni allo scopo.
Per questo, se non si può investire in un vero riassetto urbanistico, è fondamentale che la città investa in cultura. Non in Cultura con la C maiuscola, perché qui non si parla di cultura accademica, ma di tutto quanto attiene alla nostra specificità e che crea un “tipicità” culturale di Vasto. Anzi, dirò di più, in ogni sua manifestazione la nostra città dovrebbe costantemente rifarsi all’unicum storico, alle millenarie radici, in una sola parola alla sua “miticità” (perché, come dice Po in Kung Fu Panda, “Non c’è prezzo per la miticità!”).
Quello di cui abbiamo bisogno, infatti, non è storia, ma è story-telling. È una favola che ognuno di noi deve continuare a portarsi viva nel cuore. E che viva deve rimanere.
Questo per fare in modo che, come cantava Jovanotti al termine dell’ultimo grande concerto ospitato allo Stadio Aragona il giorno 10 agosto 2008, il Centro, per noi vastesi, sia per sempre e per sempre rimanga “l’ombelico del mondo”!