Era lì in piazza San Carlo a Torino a tifare Juventus nella finale di Champions, sabato sera, Laura Barbella, 23 anni, studentessa lancianese di Cinema e Media nell’Università del capoluogo piemontese. E dopo alcuni giorni di silenzio, ha deciso di raccontare quanto accaduto, quanto ha visto e quanto ha provato.
Ecco il suo racconto:
Ero in piazza San Carlo. Vorrei raccontarvi cosa è successo in modo conciso e lineare e poi fare le dovute considerazioni.
Sabato mattina, insieme alla mia amica Valeria sono andata a fare una “ricognizione” in piazza per capire se era o meno il caso di vedere la partita lì. Dato che in nessun comunicato o articolo erano chiare le misure di sicurezza che si sarebbero adottate abbiamo chiesto ad una pattuglia informazioni e ci è stato risposto che la piazza sarebbe stata chiusa di pomeriggio e l’accesso sarebbe stato regolamentato come negli stadi: niente vetro, niente tappi alle bottigliette di plastica, niente oggetti pericolosi.
Decidiamo allora di comprare qualcosa da sgranocchiare e un paio di birre, tornare in centro più tardi, fare “aperitivo” da qualche parte e valutare se entrare in piazza o meno in base alla quantità di persone presenti.
Non va proprio così però, perché arrivate alle 17 davanti alle transenne notiamo che dentro la piazza, ancora abbastanza libera, in molti hanno bottiglie di vetro e bevono tranquillamente. Perciò decidiamo di andare anche noi.
Entro nel “recinto” passando i controlli: ho una Tennent’s (in vetro) in mano, perfettamente visibile, e una altrettanto identificabile nello zaino che la guardia mi ha fatto aprire. Appena entrate erano già evidenti gli abusivi con le bacinelle e i carrelli pieni di bottiglie.
Prendiamo posto sedute sulla ringhiera delle scale che portano al parcheggio (gemella di quella che poi ha ceduto, lato destro, poco più dietro della metà della piazza), non un posto sicurissimo ma quel tanto rialzato da permetterci di vedere senza ostruzioni l’unico maxischermo. Aspettiamo l’inizio della partita mentre la piazza intorno a noi si riempie – talmente tanto che in molti salgono sull’edicola, sul cavallo e un paio addirittura sui lampioni. Nel frattempo mi scappa la pipì ma la mancanza di bagni chimici mi porta per la disperazione a cercare di farla nell’anticamera del parcheggio sotterraneo, che però ormai è diventata una cloaca e la mia pochezza di stomaco mi costringe a fare mezz’ora di fila presso l’unico wc dell’unico bar aperto in piazza.
La partita inizia, decine di fumogeni si accendono nei momenti salienti e l’aria spesso si riempie di fumo. Gli abusivi che passeggiano chiedono 5€ per una birra 33cl. Dietro di noi, dal fondo delle scale del parcheggio, ad un certo punto spuntano tre ragazzi con due carrelli della spesa pieni di lattine di birra che si caricano su per le scale. Sono sicura quasi al 100% che ad aprirgli la porta c’era un dipendente GTT, Gruppo Torinese Trasporti (ho riconosciuto la divisa).
Perdiamo. Pareggiamo, ci abbracciamo. Intervallo, ci sgranchiamo le gambe. Perdiamo. Perdiamo ancora di più e ormai è chiaro che anche quest’anno niente. Poi qualcosa di strano mi fa istintivamente girare la testa, vedo migliaia di teste spostarsi velocemente come un’onda. Salto giù dalla ringhiera, il pavimento trema, lascio lo zaino, stringo forte il cellulare, corro, perdo Valeria.
Il resto del racconto lo evito. Perché sì, perché è meglio così, perché il terrore, la consapevolezza di poter morire, la suggestione di scorgere “un nemico”, la testa contro il muro, il petto compresso, l’aria, i piedi, braccia gambe cumuli di persone sangue… tutto questo non può essere poi analizzato in nessun modo.
Ora, tralasciando la scelta della piazza e le polemiche sullo stadium, mi sembra più che evidente che un problema generale c’era. A prescindere poi da come si sono tragicamente sviluppati gli eventi. Il vetro che avevamo è stato sicuramente visto dalle forze dell’ordine ma completamente ignorato. Così come tutti gli abusivi. Così come tutti i fumogeni, così come tutti quei ragazzi arrampicati a metri e metri da terra.
Lo schermo non era tanto maxi e decisamente poco rialzato. Rispetto alla finale di due anni fa (in cui gli schermi erano due, di cui uno isolava e proteggeva il cavallo al centro della piazza) la visione era difficoltosa e ciò ha favorito la calca. Servizi igienici inesistenti, nessun cordone di sicurezza, nessuna via d’uscita facilitata: eravamo rinchiusi e lasciati in balia di noi stessi in pubblica piazza.
Sono sicura che qualcuno userà la parola incoscienza per descrivere chi come noi aveva le bottiglie di vetro o chi si arrampicava in posti poco sicuri. Faccio mea culpa, il buon senso normalmente l’avrebbe impedito, certo. Ma siamo davvero noi quelli da condannare? È davvero l’inciviltà la causa dei tagli sulle gambe di 1500 persone?
Non è stato un attentato. Non è stato un attentato “fai da te”. Non è stato un auto-attentato. Probabilmente non è stata nemmeno la bravata di qualcuno. Non siamo stati pecoroni terrorizzati, non siamo stati isterici di massa.
Ho sentito dire talmente tante stronzate e definizioni fantasiose. Ho sentito dire che l’evento non era organizzato dal comune ma dagli ultrà, o dalla Juve, o da privati; ho sentito “eh ma dovevate fare così”, ho sentito addirittura ridere di come si sia propagato il panico in questa maniera. Ho sentito troppo, da chi sa troppo poco.
Noi siamo figli del nostro tempo, con tutte le paure che questo comporta; siamo figli di questa Italia, goliardica e disattenta, spesso capace solo di puntare il dito a giochi fatti e giustificarsi. Quello che è successo – dall’evento in piazza all’evento mediatico – è il frutto di una serie di malfunzionamenti e cortocircuiti, sia istituzionali che individuali.
Se non cominciamo seriamente ad impegnarci per cambiare testa, continueremo a raccogliere solo questi frutti bacati.