“L’uomo non è il suo errore”. È questa frase di Don Oreste Benzi che Franco, responsabile della comunità CEC Santi Pietro e Paolo, della comunità Papa Giovanni XXIII, mi ‘consegna’ come sintesi del nostro incontro. CEC sta per Comunità Educante con i Carcerati, “e sottolineo – mi dice – il con. Una comunità che viva in comunione, in condivisione, insieme”. Loro sono arrivati a Vasto ad agosto 2016, prendendo il posto nella struttura della diocesi a San Lorenzo che era stato della casa famiglia Manuela, trasferitasi a Campli. La CEC nasce dalla volontà di Don Oreste Benzi dopo un suo viaggio in Brasile. “Lì -spiega Franco – c’è il progetto madre che nasce dall’intuito di un giudice che condannò la stessa persona per lo stesso reato l’ennesima volta. Con l’aiuto della Caritas brasiliana e insieme a un giornalista idearono progetto di reinserimento sociale. Si basa sulla consapevolezza di ciò che si è stati, sul perdono verso se stessi, sulla responsabilizzazione della persona nell’accettazione degli altri. Per tutta una vita chiunque ha commesso reato ha giustificato quello che ha fatto: per una condizione familiare non favorevole, per via di un’estrazione sociale non favorevole, per il luogo, le amicizie. La responsabilità è sempre degli altri. Questo è un percorso che è volto alla conversione, a tornare indietro sulla propria vita, per quanto la persona è disposta ad aprirsi e trovare i punti fondamentali che ci hanno fatto deviare”.
La CEC “è una misura alternativa al carcere, dove possibile, in virtù del reato, del residuo pena, in accordo con la magistratura. Noi presentiamo un progetto e se una persona può accedervi si decide di dargli una speranza di resurrezione. Oltre alle persone che scontano una pena abbiamo anche persone libere, che non c’entrano niente con la delinquenza, con la criminalità, che non hanno mai commesso ‘reati’. Anche se, per me, c’è una tipologia di reati che non rientrano nel codice penale. Abbandonare la propria famiglia, ad esempio, credo sia un reato anche se il codice non lo prevede”.
L’uomo non è il suo errore – “Con queste parole – spiega Franco – Don Benzi ci dice che si nasce uomini, si nasce persone. Persone che sbagliano ma non sono sbagliate. C’è un momento della nostra vita in cui noi abbiamo scelto di sbagliare, di fare del male, di farci del male soprattutto. Se noi riusciamo a capire cosa è successo in quel momento, se riusciamo a rimuovere quella causa di sofferenza che ci ha impedito di vivere, otteniamo due risultati fondamentali: abbiamo salvato questa persona e, forse più importante, abbiamo salvato potenziali vittime. Se noi riusciamo a recuperare una persona che spaccia eroina forse moriranno meno ragazzi. Se riusciamo a recuperare un rapinatore forse non ci saranno rapine violente”. Nel percorso di ognuno “chi ha sbagliato deve pagare. Ma ci chiediamo: riusciamo a fare in modo che questa espiazione sia fatta in maniera responsabile e utile alla persona e alla società?”. La risposta è nei numeri forniti dall’amministrazione penitenziaria che dicono come la recidiva sia altissima. “L’80% torna a delinquere perchè è impossibile che, con la mole di lavoro all’interno del carcere, si arrivi a rimuovere le cause che hanno portato a delinquere. Queste persone, anche se armate da buoni propositi, si trovano a scontrarsi con il proprio io, fatto ancora di fragilità, di rabbia, di durezza. E torneranno a colpire e farsi del male”.
L’esperienza personale che diventa missione – “Io sono qui senza stipendio, non è un lavoro. È una scelta che ho fatto tanti anni fa. Ma, egoisticamente, ti dico che queste è l’unica possibilità che ho per volgere in positivo quello che è stato un percorso negativo. La comunità io l’ho conosciuta in carcere. Ho fatto del male a me stesso, alla mia famiglia, mio padre, mia madre, mia moglie, i figli. Ho avuto una bella vita ma non ero felice. Non mi sono mai fidato di me stesso, non mi sono mai amato. E nel momento in cui non vuoi bene a te stesso non riesci ad amare qualcuno. Erano tutti strumenti per coprire questo mio vuoto”.
L’arrivo a Vasto – “Siamo arrivati ad agosto e abbiamo beneficiato del lavoro di Claudia e Gioacchino. Hanno presentato la Comunità Papa Giovanni XXIII, che a Vasto tutti conoscevano e amavano, non le singole persone. A livello territoriale c’è stato coinvolgimento. In tanti tra istituzioni, vescovi, associazioni e volontari, hanno varcato il cancello per venire qui, per incontrarci. Sentiamo che la risposta è stata estremamente positiva e ringraziamo Dio per questo”. Quelle che mancano ora sono delle possibilità occupazionali. “Vorremmo poter avere un laboratorio agricolo con l’orto, gli animali, per provvedere al nostro sostentamento. Non esiste retta per nessun detenuto perchè non viene riconosciuto il disagio, lo Stato non riconosce la possibilità di un aiuto economico. Intanto la casa ci è concessa gratuitamente dalla diocesi di Chieti-Vasto e per questo ringraziamo Padre Bruno Forte che è venuto ad incontrarci e che è rimasto molto felice di questa esperienza. E poi andiamo avanti di provvidenza, con l’aiuto della comunità. Ma, come siamo stati capaci di fare del male, siamo capaci di rimboccarci le maniche e darci da fare per tirare fuori il sostentamento”.
Salvare vite – Alla cittadinanza del territorio che accoglie la comunità Santi Pietro e Paolo viene chiesto di “sentire una responsabilità sociale che abbiamo tutti, quella di dare una speranza a questi figli. Sono persone che hanno sbagliato ma non sono persone sbagliate. Sono persone che hanno dei doni, delle doti, delle qualità, Sono persone che non hanno mai creduto in se stesse”. La riflessione di Franco è concreta: “Esiste gente che ha sofferto molto più di noi ma non ha fatto il criminale, esiste gente che ha portato pesi più grandi ma non ha scelto la strada della delinquenza. Noi abbiamo scelto la strada più semplice. Quindi siamo state e siamo delle persone fragili che devono trovare il giusto allenamento per irrobustirsi, per gettare delle fondamenta in cemento armato per poter vivere nella società. Questo progetto è come una palestra di vita, cerchiamo di recuperare tutto lo storico del passato per intervenire sul disagio scatenante e sia per gettare le basi per poter tornare a nuova vita. È chiaro che avremo dei fallimenti, siamo uomini. Ma il Ministero di Grazia e Giustizia ci dice che chi vive una misura alternativa al carcere solamente il 20% torna nella recidiva. Significa che l’80% dei ragazzi che accoglieremo non tornerà a delinquere. Ma non mi basta. Avremo salvato le loro famiglie, abbiamo salvato anche delle potenziali vittime. Abbiamo messo un seme che attecchisce. Diceva Sant’Agostino Salva una vita e salverai l’umanità intera. Poi saranno testimoni di vita, anche portatori sani di dolore, di esperienze negative. Potranno fare testimonianza viva”.
Tutti quanti siamo educatori – “Queste persone saranno portatori sani di dolore, faranno testimonianza viva, ricordando che il vero coraggioso non è chi fa rapine, spaccia, fa estorsioni, rapine. Il vero coraggioso è quello che si alza tutte le mattine alle 5 e va a lavorare. E quando arriva la fine delle mese non ricorre a sotterfugi ma si carica sulle spalle la croce della vita e la porta avanti. Noi non l’abbiamo fatto, siamo fuggiti. E chi è che fugge, il vigliacco o il coraggioso? Chi è che scappa via dalla vita?”.
Una comunità viva, con i suoi quattro educatori, che vivono ogni giorno insieme ai venti ospiti, il più giovane di 19 anni, il più grande di 61, per provare a dar loro una speranza. “Alla cittadinanza chiediamo di incontrarci, di accoglierci, ha il dovere di aiutarci a dare speranza. Lo sta già facendo e ne siamo grati e sicuramente è un rapporto che può essere ampliato”.