“Molto presto l’automazione ridurrà drasticamente il lavoro. Se i dipendenti della Sevel, per esempio, passassero da 6500 a 650, vorrei proprio vedere cosa succederebbe! Prima o poi succederà, molti lo sanno, ma nessuno fa niente…”.
Queste sono state le parole con cui Giovanni Di Fonzo, presidente di Rati, ha chiuso la conferenza che mi ha visto come ospite lo scorso venerdì al Palazzo Comunale di Lanciano. Queste parole mi hanno accompagnato durante tutta la settimana. Riprendevano i temi accesamente dibattuti durante l’incontro con il moderatore Carlo Ricci e con gli altri ospiti intervenuti. Riprendevano, soprattutto, il tema su cui il numeroso pubblico aveva mostrato maggior interesse e maggiore attenzione.
Il lavoro. Il futuro del lavoro, i suoi prossimi cambiamenti, le mutazioni sociali a cui assisteremo. Sappiamo quello che ci attende? Soprattutto: siamo pronti? Ci stiamo preparando ai cambiamenti?
Devo purtroppo dire di no. Siamo fermi, ci lamentiamo della mancanza di lavoro per i giovani, dibattiamo di modeste riforme al mercato del lavoro (jobs act, voucher, ecc.), ma non ci rendiamo conto del cambio di scenario che si sta annunciando e di fronte al quale appariamo come lo stolto che, quando il saggio gli indica la Luna, non guarda la Luna, ma guarda il dito.
La Luna che abbiamo di fronte è il mondo in cui vivremo quando ci saranno sempre meno occupati perché ci sarà sempre meno lavoro. Produrremo valore a sufficienza per mantenere il nostro attuale livello di vita? Resisteremo alle sfide lanciate dai paesi emergenti grazie alla globalizzazione? Saremo di nuovo costretti ad emigrare? Il nostro attuale tessuto sociale si sfalderà?
Sarà una grande frana. Cambierà il volto delle nostre città (dal punto di vista sociale e, poi, anche necessariamente materiale). Come tutte le frane, diremo che è stato un evento improvviso ed imprevedibile, ma non sarà vero, perché i sintomi ci sono già tutti e noi, semplicemente, li stiamo ignorando.
A differenza dell’esempio fatto da Giovanni Di Fonzo, il lavoro che sparirà per primo (è già in gran parte sparito) non è quello degli operai, ma quello degli impiegati. Gli operai come quelli della Sevel (e delle tante altre aziende manifatturiere che, per fortuna, popolano la nostra Frentania) non possono essere sostituiti così facilmente dai robot. Alcuni di essi perché compiono mansioni fisiche (il montaggio) complesse dal punto di vista manuale e l’automatizzazione è ancora troppo costosa e rigida per rendere vantaggioso un processo produttivo automatizzato. Altri perché (ve lo aspettavate?) sono in realtà operatori che già oggi comandano macchine sostitutive del lavoro umano (infatti in Sevel oggi ci sono 6500 persone, a Mirafiori negli anni ’60 ce n’erano quasi 10 volte tanto).
La quarta rivoluzione industriale (il famoso slogan “Industria 4.0”) sta uccidendo tutte le mansioni che consistevano nella manipolazione di informazioni semplici, di basso livello. Non è una cosa là da venire. Sta già succedendo. Ogni giorno. Nelle nostre case. Pensate all’ultimo pacco che avete ordinato online, oppure pensate all’operazione bancaria che avete fatto su internet, oppure alla stanza d’albergo prenotata con il booking. Avete avuto un servizio migliore che nel passato. Non avete fatto file e non vi siete mossi da casa. Ma chi ha perso il lavoro che prima gli dava reddito e dignità sociale? Il negoziante. Il rappresentante. L’agente di viaggi. Il bancario. Chi ce l’ha ancora (per poco) quel lavoro? Il camionista (che sarà sostituito un giorno da un pilota automatico), il fattorino (che verrà sostituito da un drone) e il portiere dell’albergo (che verrà sostituito da strumenti di domotica).
Chi manterrà invece il suo lavoro? Chi fa le operazione più umili (non perché siano insostituibili, ma perché in quel caso l’automazione non è conveniente) e, ovviamente, chi progetta e realizza i sistemi per automatizzare il lavoro e gestire le informazioni sul cui scambio vorticoso si basa oggi la nostra struttura sociale.
Allora, se vogliamo guardare alla Luna, avremo un futuro (molto prossimo) in cui a lavorare saranno sempre meno persone, ma quelle che lavoreranno si divideranno in una forbice che vedrà ai due estremi le mansioni più semplici, che saranno sempre più confinate (non succederà mai più che un operaio diventi un giorno direttore della sua fabbrica), e le mansioni più qualificate, che saranno sempre più richieste.
Entrambi i tipi di lavoro avranno una caratteristica in comune. Chi lavorerà dovrà lavorare sempre di più. I primi, per vincere la concorrenza di tutti coloro che, rimasti senza lavori tradizionali, ridurranno le loro pretese pur di accedere a quel poco di mercato del lavoro rimasto (lo stiamo vendendo già adesso: quante persone qualificate si offrono per lavori semplici?). I secondi, perché di essi ci sarà penuria e saranno spinti a creare sempre più valore per mantenere la competitività dei sottosistemi economici in cui sono inseriti (le loro aziende o il proprio comparto) e per consentire il mantenimento della coesione sociale tramite il finanziamento del welfare per le classi non produttive.
Dal punto di vista regionale, stiamo assistendo in maniera evidente a questi fenomeni già da anni e ne paghiamo già pesantemente le conseguenze perché la nostra economia è gravemente sbilanciata su produzioni di tipo tradizionale. Rimane presente il lavoro operaio (e meno male!), quindi chi vuole lavorare deve rivolgersi a quel tipo di attività nel manifatturiero o nel terziario di base (servizi alla persona, ristorazione, ecc.). Il lavoro dell’altra punta della forbice, invece, è quasi del tutto assente e i giovani che scelgono di specializzarsi e ambire a quel tipo di occupazione sono quasi tutti già costretti ad emigrare.
Il risultato che otterremo nel lungo periodo è pesante. Avremo una società sempre più anziana e saremo costretti a svalutare di fatto i compensi dei lavoratori (i salari nelle piccole imprese e nei lavori non qualificati sono già estremamente bassi) per cercare di mantenere la rotta, fino a quando non interverrà qualche decisione, presa a Tokio o a Detroit, di chiudere uno dei 3 grandi stabilimenti presenti nella zona e, allora ci sarà la frana. A quel punto, mettere puntelli (cassa integrazione, lotte sindacali, interventi del governo, ecc.) servirà a ben poco. Avremmo dovuto piantare alberi prima, ma, su questo territorio, alberi (di sviluppo economico alternativo) ce ne sono ben pochi e nessuno si sta adoperando per farli crescere.
E, allora, torniamo a Di Fonzo e alla riflessione di venerdì scorso. Si può fare qualcosa? Per rispondere, prendo un altro spunto dalla stessa serata e da una polemica che mi ha opposto a Gianni Orecchioni, dirigente scolastico e direttore dell’ITS Sistema Meccanica di Lanciano. Orecchioni rivendicava i brillanti successi del proprio ITS (Istituto Tecnico Superiore, un percorso formativo post-diploma che si svolge per metà sui banchi e per metà in azienda), per l’alto tasso di occupabilità dei propri diplomati. Io, pur riconoscendo la bontà dell’iniziativa, gli contestavo il fatto che questo piccolo lumicino non fosse sufficiente a rischiarare un panorama desolato in cui la formazione scolastica è completamente staccata dal mondo produttivo e, a mio parere, non riuscirà a ricollegarsi allo stesso con le misure attualmente vigenti (vedi “Buona Scuola”).
Orecchioni ha ragione quando indica nell’ITS di Lanciano un esempio positivo (oggi si direbbe “best practice”) e da imitare. Io non dico che non serva, dico che bisogna moltiplicare e “industrializzare” questo modello e trovare il modo di creare percorsi formativi in cui siano le imprese e le organizzazioni produttive a “chiamare” i programmi e non solo il mondo dell’istruzione a “spingere” verso il mercato le professionalità che è in grado di formare. Questa deve essere linfa per le radici dei nuovi alberi da piantare per consolidare il terreno produttivo della Frentania e evitare le conseguenze drastiche che avrebbe lo “smottamento” di uno dei colossi manifatturieri che sostiene la nostra economia.
E dal punto di vista pratico? Iniziamo con quello che c’è e diffondiamo le buone pratiche. A Vasto, oggi, non abbiamo alcuna forma di istruzione post-diploma oltre al corso di Scienze Infermieristiche. Un ITS a Vasto, in collaborazione con le aziende della Val Sinello e della Valle Trigno sarebbe il primo doveroso passo. Anche solo una succursale di quello di Lanciano (non gridate al sacrilegio!). Ma non deve essere un’operazione pilotata dall’alto, per creare quei pochi posti di lavoro (per gli insegnanti) che venivano storicamente creati con i corsi di derivazione accademica. Dovrebbe essere un centro di aggregazione e promozione culturale nel senso vero della parola.
Dovrebbe essere accompagnata dal coinvolgimento di tutte le forze sociali e ospitata in un luogo in cui vi siano laboratori e servizi aperti a tutti i cittadini. Facendo leva sull’associazionismo a cui concedere spazi in cambio di attività di promozione sociale. Immagino un Fab Lab (il Fab Lab è una piccola officina che offre servizi personalizzati di fabbricazione digitale) con la possibilità di stampare oggetti in 3D. Immagino un piccolo incubatore per start-up, uno spazio per i creativi digitali, una struttura in cui coagulare le esperienze di innovazione e le competenze portate sia dalle aziende che dai privati.
Il tutto gestito in parte dall’ente pubblico e, in parte, da organizzazioni del terzo settore con le quali il Comune di Vasto dovrebbe stipulare convenzioni trasparenti e inquadrate dall’apposito regolamento recentemente annunciato.
Lo spazio per fare questo? Il posto ideale sarebbe l’asilo Carlo Della Penna. Fu donato a Vasto da un benefattore emigrato in Argentina che, in occasione della sua inaugurazione nel 1958, ebbe a dire “sono convinto che sia un modo utile e proficuo di contribuire alla costruzione di una società migliore e più armonica nella quale gli uomini possono trovare, mediante l’educazione e la cultura, la soluzione a tutti i loro problemi”.
Carlo Della Penna voleva che il suo dono fosse rivolto ai bambini bisognosi di istruzione primaria. Eravamo nel 1958 e questo era uno straordinario obiettivo di promozione sociale. Oggi i tempi sono cambiati, ma l’importanza dell’educazione è ancora fondamentale. L’analfabetismo da combattere, però è un altro e sono convinto che anche Carlo Della Penna, oggi, sarebbe contento se il suo dono straordinario rivivesse nelle forme più adatte al tempo di oggi.