La “notizia della settimana” è una sola. Un operaio della Sevel, il più grande stabilimento industriale d’Abruzzo, ha finito col pisciarsi addosso perché il suo capo non gli ha dato il permesso di andare in bagno. Il fatto è successo 9 giorni fa, esattamente il 7 febbraio, ma l’eco dell’avvenimento è cresciuta di giorno in giorno, fino ad esplodere ieri sulla prima pagina di un giornale nazionale, L’Espresso.
All’inizio il fatto aveva destato l’attenzione di un solo sindacato, l’USB (Unione sindacale di Base), che aveva dichiarato un’ora di sciopero. Successivamente, però, sempre più voci si erano unite al coro di coloro che mettevano in croce l’azienda per quanto accaduto: post, articoli, un’interrogazione parlamentare e, dulcis in fundo, la promessa di azioni legali contro l’azienda.
Fiat Chrysler aveva reagito scusandosi con l’operaio e trasferendolo in un’altra area di produzione. Aveva anche partecipato con i suoi dirigenti ad un’assemblea straordinaria indetta da tutte le sigle sindacali (quelle firmatarie dell’accordo sul contratto di lavoro aziendale), assemblea da cui era scaturito un richiamo per il “team leader” (l’operaio caposquadra) e per il caporeparto (l’impiegato responsabile di tutta la linea).
Ma, stando a quanto riportava ieri L’Espresso, per i sindacalisti dell’USB e per l’avvocato che rappresenta l’operaio coinvolto questo non è sufficiente. Invocano la sostituzione del capo dell’unità di montaggio e dello stesso direttore dello stabilimento. Il tutto in un clima di lotta di classe che viene ben riassunto dalle parole di Gianni Melilla, il deputato di Sinistra Italiana che ha presentato l’interrogazione parlamentare e che si scaglia contro la “fase primitiva dello sfruttamento della forza lavoro da parte di un capitale avido e disumano”.
Qui, però, non siamo allo stadio. Non si tratta di litigare se era rigore oppure no. Non è un gioco per divertirsi. Qui si gioca sulla pelle delle persone (anche la nostra).
Pertanto fermiamoci un attimo. Riflettiamo e ragioniamo.
Iniziamo a pensare a cos’è la Sevel e a cosa rappresenta per l’Abruzzo e per l’Italia. Un fatturato di circa 3 miliardi di euro, più del 10% del PIL regionale. Trecentomila Ducato prodotti ogni anno. Dal 1981 un fiume di furgoni che, dalla Val di Sangro, raggiungono la costa e poi, da lì, si spandono per tutta Europa con i marchi di Fiat, Peugeot e Citroen.
Ma c’è di più. Sevel occupa 6500 addetti diretti, circa 9000 contando l’indotto. Un flusso di stipendi, tasse e contributi che aiuta in modo sostanziale l’economia locale e che fa della provincia di Chieti l’unica in Abruzzo a non aver subito la deindustrializzazione che ha colpito gran parte degli altri territori.
Sevel, quindi, non è solo un gigante dal punto di vista economico. È, soprattutto, una delle poche vere eccellenze (oggettive) della nostra terra perché lì si fa il miglior furgone d’Europa (quantomeno uno di quelli di maggior successo), lo si fa da tanti anni e lo si fa con qualità ed efficienza.
In altri termini, Sevel è il motore d’Abruzzo.
Che cosa è successo, allora, in un luogo dove si produce questa eccellenza? Davvero, come sta passando, ormai quotidianamente, negli articoli di giornale, il padrone umilia volutamente l’operaio impedendogli di soddisfare i suoi bisogni fisiologici? Davvero è in corso una lotta di classe fra dirigenti e lavoratori?
Se uno conosce la fabbrica e, in particolare, quella complessissima macchina che è uno stabilimento di carrozzeria, sa bene che le cose non stanno così e che non possono stare così. La realtà, come spesso accade, è molto più complessa e, per farsi un’opinione di quello che succede, è necessario andare oltre i facili entusiasmi e le altrettanto facili indignazioni.
Cosa è successo davvero alla Sevel?
È successo che un operaio avesse bisogno di essere sostituito sulla linea di montaggio al di fuori delle pause programmate (10 minuti per tre volte a turno, oltre a mezz’ora per la mensa). È successo che chi doveva sostituirlo (il team leader) fosse impegnato perché in quel momento era “in postazione”. Ovvero stava già sostituendo un altro operaio di linea. Inoltre, stando a quello che mi dicono dei miei amici operai in Sevel, chi avrebbe eventualmente potuto sostituire il sostituto, ovvero il supervisor, non era in officina perché impegnato in una riunione organizzativa.
Dovrebbe succedere una cosa del genere? No. Non dovrebbe succedere, perché il team leader non dovrebbe essere impegnato sulla linea. Il suo compito sarebbe quello di aiutare gli operai, senza sostituirli se non per brevi momenti (come quelli legati ad un bisogno impellente).
Può succedere una cosa del genere? Sì, può succedere. Inutile nascondersi dietro ad un dito. Perché se quel giorno al mattino ci sono 2, 3, 4 assenti in squadra per un qualsiasi motivo, anche per una semplice influenza, non è che l’azienda possa rinunciare a produrre i 400 furgoni di quel turno. Ne va delle sorti dello stabilimento, dell’azienda e, in definitiva, anche dell’Abruzzo.
E allora dove sta il problema?
Il problema sta nel fatto che un evento anche significativo, un evento che meritava la giusta considerazione all’interno dell’organizzazione aziendale, un evento che, all’interno della normale dialettica fra azienda e lavoratori, sarebbe dovuto servire da spunto per ragionamenti sulle rotazioni e sulla disposizione degli addetti sulla linea, è diventato il motivo di una crociata mediatica.
Una crociata in cui si chiede la testa dei dirigenti e dei preposti, senza rendersi conto che, per difendere un lavoratore (cosa giusta), si sta dando addosso ad altri lavoratori (cosa profondamente sbagliata). Soprattutto, chi sta dando addosso a tutta la catena di responsabili (dal direttore di stabilimento fino all’operaio che ha il ruolo del team leader), lo sta facendo probabilmente senza aver mai lavorato un giorno in una fabbrica e senza avere idea di quanto sia complesso il suo sistema organizzativo.
Una crociata portata avanti da chi, evidentemente, non si rende conto che l’esiguità delle pause, legata alla necessità di sincronizzare tutta la catena produttiva, è dettata non da una volontà dell’azienda di controllare e umiliare gli addetti, ma, di fatto, è dettata da noi stessi che, quando compriamo un furgone (o una vettura) non vogliamo tanto che sia “Made in Abruzzo”, quanto, piuttosto, che costi meno degli altri, che abbia più tecnologia degli altri e che sia fatto con maggior qualità degli altri.
Una crociata condotta non solo da chi denuncia il fatto sui giornali, in parlamento o in procura, ma anche sospinta da tutti noi che stiamo inzuppando il pane in una storia che, per come viene raccontata, sembra riportarci indietro nel tempo, alle atmosfere de “La classe operaia va in paradiso”.
In sostanza, di fronte a questa vicenda ci siamo “svalvolati”.
Dovremmo invece avere più rispetto per tutti. Per l’azienda, che rappresenta una realtà così importante sul nostro territorio. Per l’operaio che ne è stato al centro e il cui caso rischia di essere strumentalizzato anche, probabilmente, al di là della sua volontà. E, soprattutto, per gli altri 6499 operai e impiegati che ci lavorano tutti i giorni, sacrificandosi in un’attività che è ben più impegnativa, faticosa e concreta che scrivere articoli, post e quant’altro sul redivivo conflitto di classe.
Oggi, infatti, il vero conflitto non è fra capi ed operai, ma fra struttura (chi produce) e sovrastruttura (tutto il resto), sovrastruttura che spesso è del tutto ignara di cosa significhi veramente lavorare.