Che strana epoca è quella in cui viviamo! Un’epoca frenetica che vive risucchiata dalla velocità, dalla competizione, dalla tecnologia, dal conformismo, dall’edonismo, dalla produttività concepita solo in termini economici e dal consumismo sfrenato.
Un’epoca in cui non c’è più molto spazio per assaporare, pur nella sua complessità, il dono della vita. Tutti disperatamente corriamo verso qualcosa, fuggiamo da qualcosa, pretendiamo qualcosa, anche se non sappiamo bene cosa.
E così, tra una corsa e una pretesa, finiamo per essere mossi da una sconcertante pulsione di morte e da bisogni autodistruttivi, che attanagliano soprattutto i nostri giovani, la cui vita è ormai ipnotizzata dalla sirena di un godimento autistico.
Non c’è più spazio per lo stupore, la meraviglia, la riflessione, il confronto, il pensiero critico, il superamento degli ostacoli, l’accettazione del fallimento e della tristezza che, invece, costituiscono il cuore di ogni autentico processo di crescita. Tutto questo con buona pace dei genitori post moderni, sempre più impegnati ad abbattere le difficoltà che mettono alla prova i propri figli per garantire loro un successo nella vita senza traumi.
Tutto e subito: è questo lo slogan fatto proprio dalla società in cui viviamo, dove i giovani hanno finito per credere che divertirsi voglia dire sballarsi e sfidare la morte. Se non fumi sei out, se non bevi sei out, se non corri sei out, se non ti mostri sei out, se rispetti le regole sei out. E alla fine cosa diventa la vita? Una pericolosa roulette russa dove, se sei fortunato, il colpo va a vuoto. Ma la vita è, prima di tutto, impegno e responsabilità, felicità, ma anche dolore. Raccontare ai giovani che nella vita è sempre tutto rose e fiori è una grande e pericolosa bugia.
La vita non va subìta o sfidata, va amata, vissuta con passione e affrontata a testa alta e, se capita di cadere, bisogna trovare il desiderio, la forza e il coraggio di rialzarsi, non dimenticando che, alla scuola del dolore e della tristezza, si impara a crescere, a diventare più forti.
A chi non lo avesse ancora fatto, consiglio di vedere “Inside Out”, il cartone animato della Pixar vincitore di un premio Oscar come miglior film di animazione. Un film geniale e coraggioso, ambientato dentro il cervello di una ragazzina di undici anni, dove viene rivendicata l’importanza della tristezza, raffigurata come una bambina occhialuta, goffa e blu: il colore dello spirito.
La bambina in questione si chiama proprio Tristezza (il mio mito!) e solo alla fine del film si capisce la sua importanza, contrariamente a quanto accade nella vita vera, dove tristezza è sinonimo di debolezza.
“Per il pensiero dominante – precisa il noto giornalista e scrittore Massimo Gramellini – la tristezza non consuma e non comunica, si nutre di astinenze e di silenzi, è antieconomica e dannosa. Occorreva un cartone animato per ricordarci che un uomo incapace di accogliere la tristezza è un automa. Non solo perché la gioia senza tristezza perde significato, come la luce senza il buio. È che la tristezza sa aprire squarci che permettono di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani”.