C’è un termine solo ultimamente entrato nel maggior uso: “resilienza”. Dal XVIII secolo, è stato utilizzato per indicare la capacità di un materiale o di un sistema di adattarsi al cambiamento. Oggi (anche a causa di eventi infausti), viene impiegato, più genericamente, per indicare l’idoneità, di una comunità o di una persona, a far fronte ad eventi traumatici, adeguandosi alle nuove realtà.
C’è un altro termine, questa volta coniato in tempi moderni, nel 1998, con cui viene indicata una disciplina ed una filosofia e che si sta facendo strada nell’uso comune: “parkour”. Creato da David Belle, uno stuntman, uno sportivo, e da Hubert Koundé, attore e regista, con esso si intende il compimento di un percorso realizzato superando qualsiasi genere di ostacolo; il termine deriva da “parcours du combattant” (percorso del combattente) ovvero un percorso di guerra utilizzato nell’addestramento militare.
Mi son chiesto: è possibile coniugare, mettere in sintonia, questi due termini? Sembrerebbe un esercizio pressoché inutile: la cosa, di per se, non porta pane a casa. Ed invece…
Ritengo esserci una linea di demarcazione ben chiara che, considerando aspetti della propria vita, rende i due diversi termini tra loro inconciliabili. Per verificare l’attendibilità di questa interpretazione, basta misurare su se stessi, sul proprio modo d’essere, i due diversi significati dei termini considerati: sei persona avvezza alla “resilienza” o al “parkour”? Perché è da questo che derivano molte delle scelte della nostra vita, le stesse che ci rendono diversi gli uni dagli altri.
E’ periodo questo, nella nostra società, in cui certo le difficoltà non mancano ed è nelle situazioni di crisi che i nostri comportamenti mutano, determinando persino un nuovo senso comune. Nella nostra quotidianità, spesso ci imbattiamo in situazioni, a volte anche futili, in cui abbiamo bisogno di qualcosa e di fronte alle quali adeguiamo il nostro comportamento al fine di risolverle a nostro vantaggio: una precedenza nel traffico, un certificato anagrafico, un prestito di denaro, l’iscrizione in una sezione e non all’altra per i nostri figli a scuola, un posto di lavoro e mille esempi ancora.
Per risolvere a nostro vantaggio, scegliamo la via più sbrigativa ed opportuna (sempre più spesso la più semplice) o la più giusta? Espressioni significative quali ”una mano lava l’altra” ed “a buon rendere”, quanto informano i nostri comportamenti? Quanto “sgomitiamo”, pur di ottenere, ben sapendo che, nel farlo, qualcun altro ne subirà le conseguenze?
E’ sempre accaduto, non c’è dubbio, e non sarebbe neanche un gran problema se ad attuare tali comportamenti fossero i pochi al cospetto dei tanti. Il dilemma nasce quando questo contegno diventa dei più, come fosse nuovo canone sociale di un attuale senso comune, un modo di vivere a cui non è possibile sfuggire anche al di là della propria indole.
Di fronte ad un’analisi del genere, ci sentiamo portati alla “resilienza” o al “parkour”? Ci conformiamo ai nuovi canoni o ci predisponiamo al “parcours du combattant”?
Nicola Gratteri, magistrato impegnato nella lotta alla ‘ndrangheta, persona che, da anni, vive sotto scorta, in una lunga intervista a Radio 24, ha affermato senza alcuna incertezza: “La ‘ndrangheta è radicata ovunque, nelle strutture dello Stato e nella pubblica amministrazione”; ben precisando, inoltre, che, gradualmente, si sta impossessando di moltissime attività economiche, arrivando a condizionare la vita dei cittadini (www.radio24.ilsole24ore.com/programma/mix24/trasmissione-maggio-2015-095734-gSLAyUo8ABTutti uguali… ‘ndrangheta).
Chissà se, un bel giorno e per tutelarne la vita, iscriveremo i nuovi nati, oltre che all’anagrafe comunale, anche nei registri della ‘ndrangheta. Certo, a fin di bene…
Massimo Desiati