Compare sui muri di più città questo slogan del “Movimento femminista proletario rivoluzionario”. Un motto in cui si utilizzano due termini che, così come posti, conferiscono al messaggio un significato dal forte contrasto ed un effetto comunicativo di grande impatto. L’aborto è l’interruzione della gravidanza. Per il senso del messaggio, di quella volontaria.
Il patriarcato è un tipo di sistema sociale in cui vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità familiare e pubblica da parte dei maschi. Ancor meglio, di quelli più anziani gruppo. Ambedue gli aspetti hanno rilevanza sia nella sfera privata che in quella sociale. Sono il senso comune e l’educazione personale che inducono a ritenere “giusto o sbagliato” un convincimento dal quale deriva il proprio stile di vita. Così come è l’aspetto culturale del proprio essere individuo in una società in cui sempre più ci si relaziona e si comunica a determinare le proprie scelte. Nell’organizzazione della vita sociale, la norma di legge rende lecita o illecita l’azione di una persona e le scelte operate dal legislatore, con una norma di legge, debbono rispondere alle attese di una Comunità organizzata. Oggi, la norma rende lecito l’aborto e lo rende prerogativa della donna nei confronti del proprio feto. Per molte donne una conquista, per altrettanto molte un regresso, l’aborto è esercitato nei confronti della discendenza. Con l’aborto, la donna sceglie di impedire, almeno in quel momento della sua vita, la propria discendenza.
Per quanto riguarda il “patriarcato”, non c’è norma di legge che lo imponga né altra che lo giudichi lecito o illecito. E’ piuttosto (o caso mai) un dato ancestrale quello che induce i singoli a ritenerlo principio a cui dare senso comune. Anzi, la legislazione sempre più sminuisce la portata di un “diritto maschile” nella famiglia, di fatto o conclamata che sia. Esempi: l’attuale normativa sul diritto di famiglia prevede che la moglie conservi il suo cognome di nascita e l’aggiunta del cognome del marito non viene riportata in nessun documento; se la coppia non è sposata, è possibile dare ai figli il solo cognome materno; se la coppia di genitori è sposata non è possibile trasmettere ai figli il cognome della madre ma, in questo caso, si è al cospetto di una violazione del diritto comunitario in tema di parità di diritti tra donna e uomo.
E’ ben chiaro che l’evoluzione o l’involuzione dei rapporti sociali produce la creazione di nuovi equilibri, fino a rendere scontato, nel senso comune, ciò che, fino a ieri, veniva invece avvertito persino inimmaginabile. E’ l’eterna lotta tra progressismo e conservatorismo? Non catalogo così. Se non altro perché, per il significato ideologico che oggi viene dato a queste parole, il progressismo è cosa buona, il conservatorismo no. Con lo slogan “Abortisci il patriarcato”, però, si va oltre. Atteso che, in linea col pensiero abortista, regolato da norme di legge, il feto, ancorché risultato di una fecondazione, è considerato “cosa propria” della donna ed è presenza di cui lei ha piena disponibilità, mi chiedo: come è possibile “abortire”, eliminare, far fallire l’idea di patriarcato che certo non può considerarsi prerogativa della donna?
Non è forse l’uomo, nella consapevolezza della propria sfera personale e nella gestione della realtà sociale che ne deriva e di cui è parte, a dover dimensionare e calibrare la propria presenza e partecipazione nel rapporto di coppia e nella società? L’evoluzione di una società presuppone certo il modificarsi di costumi e regole condivise ma con una consapevolezza che non può scaturire da forme di prevaricazione, violenta arroganza e compulsione. Una mano di densa vernice su quel muro farebbe bene a tutti, alle donne, agli uomini ed alla società. Please… non la si chiami censura.